La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto può essere applicata ad entrambe le ipotesi di reato di cui all’art. 186/2, lett. b) e c), CdS. restando ferma la sanzione amministrativa della sospensione della petente di guida che dovrà, comunque, essere comminata dal Giudice penale.
(Cass. Sezione IV Penale, 9 settembre – 2 novembre 2015, n. 44132)

-OMISSIS-
OMISSIS ricorre, a mezzo del difensore, avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di Appello di Milano, confermando quella pronunciata dal Tribunale di Como, lo ha condannato alla pena ritenuta equa, giudicandolo responsabile di guida in stato di ebbrezza alcolica, con l’aggravante di aver guidato tra le ore 22,00 e le ore 7,00, commesso il OMISSIS. 2.1. Con un primo motivo l’esponente denuncia violazione di legge, per essere stata ritenuta regolare la notifica all’imputato del decreto di giudizio immediato a seguito di opposizione a decreto penale di condanna nonostante essa fosse avvenuta presso il difensore ai sensi dell’art. 148, co. 2bis e 157, co. 8 bis cod. proc. pen. e non nel domicilio eletto dall’imputato e fosse stato utilizzato allo scopo il telefax. Egualmente viziata, e per le medesime ragioni, la notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di primo grado e della citazione per il giudizio di appello. La Corte di Appello ha respinto le relative eccezioni ritenendo che esse fossero sanate perché, in ragione del dovere del difensore fiduciario di mantenere contatti con l’assistito e della riserva di eventuale presentazione di autonomo atto di appello da parte dell’imputato espressa nell’appello del difensore, dovendosi ritenere che il OMISSIS avesse avuto conoscenza degli atti. In ciò ravvisa l’illogicità dell’impugnata sentenza. La quale, continua l’esponente, non ha motivato in ordine alla dedotta nullità per essere stato utilizzato il telefax per la notifica di atti destinati all’imputato, nonostante la disposizione data del giudice di procedere alla notifica personalmente.
2.2. Con un secondo motivo deduce vizio motivazionale in relazione alla ritenuta affidabilità dell’accertamento strumentale del tasso alcolemico. Rammenta l’esponente che la questione era stata posta in relazione alla generale affidabilità del metodo individuato dal legislatore e che, all’inverso, la Corte di Appello ha replicato facendo riferimento all’assenza di elementi dimostrativi della alterazione nel caso concreto del risultato dell’accertamento.
2.3. Con il terzo motivo si deduce vizio motivazionale in punto di determinazione della pena e della mancata sostituzione della stessa con il lavoro di pubblica utilità. La Corte di Appello ha negato la sostituzione asserendo che essa necessita della rinuncia alla sospensione condizionale della pena eventualmente concessa in precedenza. Per l’esponente con la richiesta di pena sostitutiva vi è stata l’implicita rinuncia al beneficio. Priva di motivazione é invece la fissazione della pena in misura superiore al minimo edittale.
2.4. Con atto depositato il 22.7.2015 il ricorrente ha chiesto l’applicazione della normativa relativa alla particolare tenuità del fatto.
Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. In merito al primo motivo si danno alcuni punti fermi: la Corte di Appello ha ritenuto sussistere le nullità derivanti dalle notifiche del decreto che dispone il giudizio immediato e dell’estratto contumaciale per essere state eseguite presso il difensore di fiducia invece che presso il domicilio dichiarato dall’imputato. Si tratta di nullità da ricondurre a quelle a regime intermedio. Infatti, la giurisprudenza di questa Corte afferma costantemente che la notificazione eseguita a norma dell’art. 157, comma ottavo bis, cod. proc. pen., presso il difensore di fiducia nonostante l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni é nulla e che detta nullità è di ordine generale a regime intermedio, da ritenersi sanata nei soli casi in cui risulti provato che la notificazione nulla non abbia impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa nonché nei casi in cui non sia stata tempestivamente dedotta, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma primo, alle sanatorie generali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 cod. proc. pen. (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 18098 del 01/04/2015 – dep. 29/04/2015, Crapella, Rv. 263753). La Corte di Appello ha ritenuto per l’appunto che le nullità prodottesi fossero state sanate; e del relativo giudizio si duole il ricorrente. La Corte distrettuale ha asserito che la nullità delle notificazioni del decreto a giudizio e dell’estratto contumaciale erano sanate perché risultava provato che esse non avevano impedito al L. di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa. Orbene, il principio posto da questa Corte é che, in tema di notificazione del decreto di citazione giudizio, l’imputato “non può limitarsi a denunciare l’inosservanza della norma processuale, ma deve anche rappresentare al giudice di non avere avuto conoscenza dell’atto e deve eventualmente avvalorare l’affermazione con elementi che la rendano credibile”. Ciò in quanto, “in un processo basato sull’iniziativa delle parti, è normale che anche l’esercizio dei poteri officiosi del giudice sia mediato dall’attività delle parti, quando dagli atti non risultano gli elementi necessari per l’esercizio di quei poteri e solo le parti sono in grado di rappresentarli al giudice e di procurarne l’acquisizione” (Sez. U, n. 119 del 27/10/2004 – dep. 07/01/2005, Palumbo, Rv. 229539). Si comprende, allora, che l’aver la Corte di Appello rammentato che sussiste – come sussiste – il dovere del difensore fiduciario di mantenere contatti con il suo assistito (e anche a tal riguardo il ricorso fa affermazioni prive di fondamento: cfr. Sez. 6, n. 34558 del 10/05/2012 – dep. 11/09/2012, P., Rv. 253276) ha lo scopo di rendere esplicito che il difensore non aveva lamentato alcun pregiudizio del diritto di difesa, evidentemente fatto salvo in concreto dall’adempimento di quel dovere. Rispetto a questo essenziale e sufficiente nucleo della decisione, l’aver valorizzato la Corte di Appello anche la formula rituale contenuta nell’atto del difensore é privo di rilievo; ed il ricorso non contrasta la fondatezza dell’affermazione fatta dai giudici territoriali, esponendo osservazioni che attengono all’ammissibilità in linea di principio della ipotizzabilità del dovere del difensore di mantenere contatti con l’assistito e alla possibilità di trame conseguenze sul piano della sanatoria della nullità delle notificazioni. Quanto alla omessa motivazione in merito alla dedotta violazione commessa facendo ricorso al fax, giova rammentare che le Sezioni unite hanno posto il principio per il quale la notificazione di un atto all’imputato o ad altra parte privata, in ogni caso in cui possa o debba effettuarsi mediante consegna al difensore, può essere eseguita con telefax o altri mezzi idonei a norma dell’art. 148, comma secondo bis, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011 – dep. 19/07/2011, Pedicone, Rv. 250121); mentre altra decisione ha affermato che la notificazione a mezzo telefax rientra tra le forme ordinarie che non richiedono, a differenza delle forme particolari di notificazione di cui all’art. 150 cod. proc. pen., un previo decreto motivato del giudice (Sez. F, n. 34028 del 14/09/2010 – dep. 21/09/2010, Ferrerà, Rv. 248184). Trattandosi di censura che attiene a violazione della norma processuale, non é rilevante che la Corte distrettuale non abbia replicato al rilievo ma il fatto che la norma processuale abbia trovato corretta applicazione; come nel caso di specie é certamente avvenuto.
3.2. Il secondo motivo é inammissibile.
Esso rimprovera alla Corte di Appello di aver motivato in merito alla valenza dell’accertamento strumentale sulla base della mancata indicazione da parte della difesa di circostanze concrete che ne potessero far ritenere compromessa l’affidabilità nel caso di specie; ed il rimprovero sarebbe giustificato dal fatto che i giudici avrebbero dovuto vagliare l’inaffidabilità intrinseca del metodo delineato dal legislatore. È evidente che in tal modo si chiede al giudice di sostituirsi al legislatore; o, almeno, di censurare l’opzione legislativa. Il che, però, può avvenire solo avanzando una questione di legittimità costituzionale o rinvenendo profili di contrasto tra la legge nazionale e quella sovranazionale che pure integra il quadro delle fonti del diritto italiano; nulla di ciò si rinviene nelle deduzioni difensive, che la Corte di Appello ha quindi valorizzato persino oltre il necessario.
4. All’esito di quanto appena esposto assume carattere pregiudiziale rispetto alla trattazione dell’ulteriore motivo di ricorso l’esame della questione introdotta dal ricorrente con i motivi aggiunti. In primo luogo va osservato che l’orientamento emerso nella giurisprudenza di questa Corte a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis cod. pen. ad opera dell’art. 1, co. 2 d.lgs. 16.3.2015, n. 28 é nel senso che la questione relativa alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui appunto al menzionato articolo 131-bis cod. pen., è rilevabile nel giudizio di legittimità, a norma dell’art. 609, comma secondo, cod. proc. pen., se non è stato possibile proporla in appello. Peraltro, la sua prospettazione non implica necessariamente l’annullamento della sentenza impugnata dovendo invece la relativa richiesta essere rigettata ove non ricorrano le condizioni per l’applicabilità dell’istituto (Sez. 3, n. 21474 del 22/04/2015 – dep. 22/05/2015, Fantoni, Rv. 263693; in tal senso anche Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015 – dep. 15/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308, per la quale l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Suprema Corte può rilevare di ufficio ex art. 609, comma secondo, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata, con annullamento della sentenza con rinvio al giudice di merito, in caso di valutazione positiva; in tal ultimo senso anche Sez. 4, n. 22381 del 17/04/2015 – dep. 27/05/2015, Mauri, Rv. 263496). Un primo punto fermo é quindi rappresentato dalla necessità che questa Corte prenda cognizione del tema proposto con i motivi aggiunti.
4.1. Prima di scendere nell’analisi della sentenza impugnata onde verificare se emergano dati che impongano l’annullamento della medesima é però necessario affrontare una ulteriore questione. Il reato che qui occupa é posto nel contesto di una disciplina che articola le condotte illecite sulla base dell’entità del tasso alcolemico, di modo che sotto un determinato valore la condizione di ebbrezza alla guida determina l’integrazione di un illecito amministrativo [lett. a) del comma 2 dell’art. 186 Cod. str.]; entro un diverso range [da superiore a 0,80 a non superiore a 1,5 g/l: lett. b)] é integrato un primo reato e ove superato il valore di 1,5 g/l trova vita una ulteriore e più gravemente sanzionata ipotesi di reato [lett. c)]. La previsione di più soglie potrebbe porsi in relazione di incompatibilità con il giudizio di particolare tenuità del fatto, considerato che essa esplicita un giudizio legislativo già ispirato ai principi di sussidiarietà e di offensività della tutela penale. Principi ai quali si ispira lo stesso istituto della particolare tenuità, che li declina in concreto, laddove la selezione legislativa si svolge sul piano astratto. Questa Corte si é già confrontata con fattispecie di reato delineate mediante il ricorso alla tecnica delle soglie, affermandone implicitamente la compatibilità con la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.: con la menzionata sentenza in causa Mazzarotto si è ritenuta sussistente la causa di non punibilità, nonostante si trattasse del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di ammontare superiore a 50.000 Euro (art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74). Ma nel caso in esame si è in presenza di un fenomeno non esattamente coincidente; qui la progressione nella offensività delle condotte é scandita non soltanto dal passaggio dall’area delle sanzioni amministrative a quella del penalmente rilevante ma anche dal trascorrere da un’ipotesi di reato ad altra, più gravemente sanzionata [sulla natura “basica” e non circostanziale delle due ipotesi di cui rispettivamente alle lettre b) e c) del secondo comma dell’art. 186 Cod. str. si veda Sez. 4, n. 10285 del 04/11/2008 – dep. 06/03/2009, Campello, Rv. 242461, in motivazione]. Tanto rende opportune alcune considerazioni. 4.2. In assenza di una esplicita presa di posizione del legislatore, il tema della compatibilità dell’istituto delineato dall’art. 131-bis cod. pen. ed illeciti penali definiti anche attraverso la tecnica della “soglia” é stato sin da subito identificato dalla dottrina come uno dei punti critici del quadro profilatosi all’indomani dell’entrata in vigore del menzionato art. 131-bis. Questo Collegio ritiene di dover affermare l’applicabilità della causa di non punibilità al reato di cui all’art. 186, co. 2 lett. b) Cod. str., alla luce delle considerazioni che seguono. In primo luogo va rilevato che il legislatore ha posto l’istituto in parola nel contesto della parte generale del codice penale, con evidente intento di attribuirgli valenza non limitata a talune fattispecie di reato. Tale conclusione é avvalorata dalla esplicita limitazione dell’operatività dell’istituto a talune classi di reato, tra le quali alcune selezionate in forza della entità della pena prevista (pena detentiva superiore nel massimo a cinque anni), altre per la presenza di connotati evidentemente ritenuti incompatibili con una particolare tenuità del fatto; ed in effetti si tratta – fatto salvo il richiamo ai motivi abietti o futili – di particolari modalità del fatto (crudeltà, anche in danno di animali”, sevizie o approfittamento delle condizioni di minorata difesa della vittima), o di condotte causative di un danno di per sé grave, come la perdita della vita, o le lesioni gravissime di una persona, ancorché come conseguenze non volute. È quindi giustificato ritenere che ubi lex tacuit ibi noluit. Nel medesimo orizzonte si segnala la previsione dell’ultimo comma dell’art. 131bis cod. pen., per il quale la causa di non punibilità si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Si tratta di una norma che da un canto convalida l’interpretazione che non riconosce limitazioni tipologiche all’applicabilità della causa di non punibilità oltre il perimetro esplicitamente tracciato dal legislatore e dall’altro manifesta che non assume alcun rilievo ostativo la previsione già in via astratta della particolare tenuità del danno o del pericolo come elemento incidente – ovviamente in senso diminutivo – sulla gravità del reato. Trascorrendo dal piano formale a quello sostanziale, mette conto rammentare che l’istituto in parola si giustifica alla luce della riconosciuta graduabilità del reato, intesa come proprietà del reato di presentare diversi gradi di gravità; i quali determinano l’escursione delle pene (che quindi tendenzialmente non possono essere fisse) ma anche lo stesso persistere o meno di una penale responsabilità. Il reato propone una struttura graduabile in ogni sua componente, tanto da potersi parlare di grado del disvalore dell’evento, per indicare la misura variabile del giudizio di contrarietà all’ordinamento dell’offesa al bene; di grado di disvalore dell’azione, per indicare la misura variabile del giudizio di contrarietà all’ordinamento delle modalità della condotta; di intensità della “colpevolezza per il fatto”, ad indicare la variabile misura della colpevolezza per il fatto. Pertanto, sono sempre rinvenibili fattori di dimensionamento della gravità dell’illecito. Peraltro, la scelta legislativa di edificare sul pilastro della particolare tenuità del reato l’eversione del meccanismo sanzionatorio può trovare sufficiente ragione anche nella sola consapevolezza della inadeguatezza della forma legge ad attuare nella sua massima estensione il principio di sussidiarietà, che quindi può ancora pretendere di inverarsi di fronte al fatto concreto costituente reato: anzi può dirsi che il vincolo costituzionale all’uso del diritto penale quale extrema ratio impone di praticare la sussidiarietà anche nella dimensione applicativa; necessariamente attraverso la mediazione del giudice. 4.3. Non appare quindi seriamente dubitabile che l’istituto in parola possa – debba – trovare applicazione a tutti i reati (anche a quelli che tradizionalmente si indicano come “reati senza offesa”, attesa la necessaria interpretazione che degli stessi deve darsi in chiave di offensività: si veda, tra le altre, C. cost. n. 265/2005); d’altro canto, questa Corte ha già statuito che la particolare tenuità del fatto, concretizzatasi nella nota causa di improcedibilità di cui all’art. 34 D.Lgs. n. 274 del 2000, trova applicazione anche in riferimento ai reati di pericolo astratto o presunto e segnatamente al reato di guida in stato di ebbrezza. Ciò in quanto anche per essi il principio di necessaria offensività consente l’individuazione in concreto di un’offesa anche minima al bene protetto, e perché la particolare tenuità si apprezza per mezzo di un giudizio sintetico sul fatto concreto, elaborato alla luce di tutti gli elementi normativamente indicati (ex multis, Sez. 4, n. 24249 del 28/04/2006 – dep. 13/07/2006, Crepaldi, Rv. 234416).
4.4. Con particolare riferimento ai reati che presentano soglie di punibilità é stata avanzata l’opinione che sia necessario tener conto del ruolo che esse assumono all’interno della specifica fattispecie. Per tale tesi, se le soglie non esprimono l’offesa, come accade quando integrano condizioni obiettive di punibilità o non sono “afferenti direttamente” all’offesa, sono certamente compatibili con la particolare tenuità del fatto. Se, all’inverso, esse afferiscono all’offesa, poiché esprimono il giudizio del legislatore in merito ai fatti meritevoli di pena non è possibile superare tale giudizio con una valutazione operata in concreto alla stregua dell’art. 131bis cod. pen.. A sostegno di una differente ricostruzione é sufficiente considerare che anche l’apposizione della linea di discrimine tra fatti penalmente rilevanti e fatti leciti segue ed esprime una valutazione di meritevolezza di alcune classi di ipotesi, enucleate da un più ampio novero. Detto altrimenti, l’incriminazione definisce la meritevolezza di astratte classe di fatti, laddove l’art. 131bis cod. pen., come già rilevato, si impegna sul diverso piano del singolo fatto concreto. Sicché, che il legislatore abbia utilizzato o meno la tecnica della soglia per selezionare classi di ipotesi che, per essere in maggior grado offensive, impongono il dispiegarsi dell’armamentario penalistico, vi é in ogni caso la necessità di verificare se la manifestazione reale e concreta – il fatto unico ed irripetibile descritto dall’imputazione elevata nei confronti di un determinato soggetto – non presenti – rispetto alla cornice astratta – un ridottissimo grado di offensività. Si può quindi giungere ad un’ulteriore conclusione: la previsione di soglie, quale ne sia la funzione all’interno della o rispetto alla fattispecie tipica, non è incompatibile con il giudizio di particolare tenuità del fatto perché in ogni caso la soglia svolge le proprie funzioni sul piano della selezione categoriale mentre la particolare tenuità conduce ad un vaglio tra le epifanie nella dimensione effettuale, secondo il paradigma della sussidiarietà in concreto.
4.5. Vi è tuttavia un argomento di particolare suggestione, spendibile in specie quando la soglia descrive il confine non già tra lecito ed illecito ma tra l’illecito penale e quello amministrativo. In tali casi, si osserva, appare irragionevole – e quindi suscettibile di sospetto di incostituzionalità – un esito del giudizio che lascia il reo privo di qualsivoglia sanzione mentre colui che commette la sola violazione amministrativa resta colpito dalle relative sanzioni, ancorché abbia commesso un fatto meno grave. L’esemplificazione che offre la scansione sanzionatoria prevista per la guida in stato di ebbrezza é paradigmatica. Orbene, al fondo di tale suggestione vi è la concezione della relazione tra illecito penale ed illecito amministrativo come di natura quantitativa; una relazione nella quale l’illecito amministrativo raccoglie le manifestazioni più lievi dell’offesa all’interesse o bene tutelato. L’unitarietà della tutela é quindi il dogma sottostante a tale opinione. Non é necessario addentrarsi nella complessa questione, che vede opporsi rappresentazioni ben differenti tra loro; con da un canto chi ritiene che i due illeciti presentino nature ontologicamente diverse e dall’altro chi afferma che si tratta di forme di manifestazione dell’illecito pubblico. E non é necessario perché anche a ritenere che prevalga il profilo quantitativo non si può non ammettere che sul piano funzionale i due illeciti presentano differenze evidenti e rilevanti, che definiscono autonomi statuti; e quindi un orizzonte, per l’illecito amministrativo, che non ha punti di contatto con la dimensione del reato. In ogni caso, vale rammentare che già con la sentenza n. 7394/1994 le S.U. hanno affermato che l’illecito amministrativo é dotato di piena autonomia normativa rispetto all’illecito penale, facendo propria la c.d. “teoria della diversità” che nega qualsiasi rapporto di continuità tra illecito penale ed illecito amministrativo ed anche su tale presupposto ha escluso che una volta constatato che il fatto non é più previsto come reato (nell’occasione di trattava della violazione dell’art. 11 del previgente Cod. str., depenalizzato dall’art. 153 del nuovo T.U.) il giudice debba trasmettere gli atti all’autorità competente in via amministrativa per l’applicazione delle sanzioni amministrative. Ritornando sul tema dopo che due sentenze (SU 1327/2004 e sez. 2 7180/2006) si erano discostate dall’insegnamento appena riassunto – rinvenendo, in forza dell’art. 41 l. 689/81, un generale principio di retroattività dell’illecito amministrativo e sostenendo che, essendo la ratio legis sottostante la depenalizzazione quella di attenuare e non di eliminare la sanzione per un fatto che rimane illecito – ed avevano concluso che deve comunque trovare applicazione la sanzione amministrativa, le Sezioni Unite hanno ribadito la posizione assunta con la sentenza del 1994, sgombrando anche il campo dal sospetto di contrasto della diversa soluzione con l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza “di una disciplina giuridica che preveda la totale impunità di coloro che hanno commesso un illecito penale, successivamente depenalizzato, e la responsabilità – sia pure solo sul piano dell’illecito amministrativo – di coloro che hanno commesso la stessa violazione dopo la depenalizzazione”. Il S.C. ha ribadito, nell’occasione, che “vi é piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali” e che, contrariamente a quanto propugnato dalla “teoria della persistenza dell’illecito”, “nel passaggio dall’illecito penale a quello amministrativo, non viene modificata solo la natura della sanzione ma viene disconosciuta rilevanza penale al precetto in seguito ad una diversa valutazione del disvalore sociale del fatto…”. Ed é per la netta soluzione di continuità nelle valutazioni del legislatore che si é esclusa una “non giustificabile diversità” di trattamento (Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012 – dep. 28/06/2012, Campagne Rudie, Rv. 252694). Può quindi considerarsi un punto fermo che in caso di depenalizzazione, salva diversa disposizione di carattere transitorio, il venir meno della rilevanza penale di una violazione non comporta – rectius: impedisce – l’applicazione della sanzione amministrativa, destinata a colpire unicamente le condotte commesse successivamente alla entrata in vigore norma della norma depenalizzatrice. Vale la pena rilevare che, già prima della sentenza n. 25457/2012, questa sezione aveva escluso che a seguito della avvenuta depenalizzazione del reato di cui all’art. 186, comma primo, lett. a), Cod. strada ad opera dell’art. 33, comma quarto, legge n. 120 del 2010 si dovesse trasmettere gli atti alla competente autorità amministrativa, e ciò in considerazione del principio di legalità -irretroattività, sancito per gli illeciti amministrativi dall’art. 1 I. n. 689 del 1981, richiamata dallo stesso art. 194 Cod. strada, non rinvenendosi nella legge n. 120 del 2010 una apposita previsione che possa far ritenere derogato il suddetto principio (Sez. 4, n. 38692 del 28/09/2010 – dep. 03/11/2010, La Mantia, Rv. 248407). Non sfugge che le affermazioni sin qui rammentate sono state formulate in ipotesi non esattamente coincidente con quella che qui occupa, riferendosi quelle al caso di illecito depenalizzato, laddove in questa sede ci si confronta con la previsione ab origine dell’accostamento di illecito penale ed illecito amministrativo. Ma tale caratteristiche non sembra in grado di privare di persuasività gli argomenti utilizzati dalle sezioni unite n. 7394/1994 e 25457/2012. Tanto va ribadito anche a fronte della giurisprudenza della Corte E.D.U., quale esprime adesione alla tesi di una distinzione unicamente di grado tra illecito penale ed illecito amministrativo; perché tale posizione é assunta per estendere le garanzie della Convenzione ad ogni forma di espressione di un diritto punitivo. Orbene, se é vero che istanze garantiste a favore di colui che é sottoposto a misure a contenuto afflittivo ben giustificano che si parli di “diritto punitivo” come di un genus comprensivo tanto del diritto penale che del c.d. diritto penale amministrativo, é parimenti vero che ogni ricostruzione che presupponga una continuità ontologica tra le violazioni dei distinti domini ed esiti nella indicazione di una loro collocazione su una medesima scala, sia pure a livelli sfalsati, non sembra cogliere la complessità, la ricchezza e l’autonomia dello statuto dell’illecito amministrativo. Calando tali premesse nella materia che occupa, risulta agevole cogliere l’assenza di qualsiasi profilo di irragionevolezza nell’esito (per quanto si dirà, ipotetico) che vede il reo sottratto ad ogni conseguenza per effetto dell’applicazione dell’art. 131bis cod. pen. e colui che ha commesso un illecito amministrativo “sotto la soglia di rilevanza penale” mantenuto destinatario di ogni sanzione.
4.6. Né il giudizio muta quando si guardi all’altro corno della questione, ovvero alla relazione tra i reati di cui alla lettera b) e alla lettera c) del comma secondo dell’art. 186 Cod. str.. Infatti, oltre agli argomenti di generale valenza sopra espressi per fondare l’interpretazione che non ravvisa limiti di sorta all’applicabilità dell’art. 131bis cod. pen. nei caso di reati “con soglia”, va ancora considerato che anche un fatto integrante il reato sub lettera c) ben può risultare particolarmente tenue – nonostante il reo presenti un tasso alcolemico superiore a quello massimo che vale per l’operatività della lettera b) – perché la causa di non punibilità impegna alla valutazione della complessiva tenuità del fatto; dovendosi quindi cogliere non soltanto l’entità dello stato di ebbrezza, ma anche le modalità della condotta e l’entità del pericolo o del danno cagionato. A ben vedere tanto implica da un canto la sicura ipotizzabilità del fatto di particolare tenuità anche in presenza di tassi alcolemici ricadenti nel range previsto dalla lettera c); dall’altro la decisività, ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità, degli altri fattori che valgono ad integrare siffatta causa. Si pensi, a mero titolo di esempio, a reato che si sia concretizzato nel guidare per pochi metri in stato di ebbrezza, con valore superiore a 1,5 g/l, una bicicletta in una strada poco o nulla interessata dal traffico.
4.7. Ma il quadro non può dirsi completato prima di rilevare che tanto per il reato di cui alla lettera b) che per quello previsto dalla lettera c) del comma 2 dell’art. 186 Cod. str., contemplano un enunciato a mente del quale “all’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida” (ovviamente per periodi differenti). Poiché non é seriamente dubitabile che l’applicazione della causa di non punibilità della quale si discorre presuppone l’accertamento del reato, ad essa consegue comunque la sospensione della patente di guida e per un periodo superiore a quello previsto per colui che incorre nella violazione sanzionata dalla lettera a). Pertanto, ove il giudice si pronunci per la non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis cod. pen., neppure si pone il quesito in ordine al potere-dovere del giudice di disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa per la irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie: egli disporrà direttamente la sospensione della patente di guida.
5. Orbene, nella sentenza in esame, pronunciata prima della novella normativa, non emergono elementi che attestino una valutazione del giudice di merito nel senso di una non particolare tenuità del reato. Il tasso alcolemico accertato é stato di 0,82 g/l alla prima prova e di 0,85 g/l alla seconda; pertanto valori estremamente prossimi al limite inferiore del range normativo. Al OMISSIS sono state riconosciute le attenuanti generiche e solo la preclusione posta dal comma 2 septies dell’art. 186 Cod. str. non ha permesso al giudice di dare indicazioni in merito ad una valutazione delle medesime in comparazione all’aggravante – pure ritenuta – dell’aver commesso il fatto tra le ore 22,00 e le ore 7,00. Tanto importa la necessità di pronunciare l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla applicabilità dell’art. 131bis cod. pen., con rinvio alla Corte di Appello di Milano per il relativo esame.
6. Il motivo concernente il trattamento sanzionatorio resta assorbito. Ciò non di meno appare opportuno rammentare – per l’eventualità che non venga ritenuta la particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis cod. pen. – che la giurisprudenza di questa Corte insegna che la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 186, comma nono bis, C.d.S., è istituto più favorevole rispetto al beneficio della sospensione condizionale della pena (Sez. 3, n. 20726 del 07/11/2012 – dep. 14/05/2013, Cinciripini, Rv. 254997) e che ove esso sia eventualmente concesso, l’incompatibilità tra i due istituti induce a ritenere che, nella ipotesi in cui la rinuncia ad esso non venga effettuata in modo espresso, deve intendersi come tacitamente avvenuta, non solo perché, in caso contrario, si perverrebbe alla insostenibile conclusione di una sanzione sostitutiva a sua volta condizionalmente sospesa, ma anche perché si determinerebbe una inammissibile lesione dei diritti del condannato che vedrebbe pregiudicata la possibilità di usufruire di una modalità di esecuzione della pena diversa e più favorevole, con aperta violazione della regola generale di cui all’art. 2 cod. pen. (Sez. 3, n. 20726 del 07/11/2012 – dep. 14/05/2013, Cinciripini, Rv. 254997). Sul relativo punto la Corte di Appello é persino contraddittoria, perché dapprima afferma che la rinuncia può essere tacita, e manifesta di intendere la rinuncia insita nella richiesta di sostituzione della pena; ma poi nel caso concreto reputa che tale non sia l’avvenuta presentazione della richiesta, valorizzando un dato al più equivoco, come l’aver chiesto l’ammissione al lavoro di pubblica utilità “con i relativi benefici di legge”. Si tratta di formula che, come osservato dal ricorrente, può effettivamente alludere sia pure impropriamente agli effetti favorevoli dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità. 7. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata, limitatamente alla applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen., con rinvio alla Corte di Appello di Milano per il relativo esame. Il ricorso va rigettato nel resto.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen., con rinvio, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Milano. Rigetta il ricorso nel resto.

Avvocato cassazionista, svolge attività stragiudiziale e giudiziale in materia di diritto penale, con particolare riferimento al diritto penale dell’impresa e dell’economia, nonché in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001. Ha maturato una significativa esperienza in materia di responsabilità da colpa medica. È Presidente e componente di Organismi di Vigilanza previsti dal D. Lgs. n. 231/2001 anche di società multinazionali.