Le dichiarazioni spontanee, anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio, sono utilizzabili nella fase procedimentale nella misura in cui emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione.

La lettera dell’art. 350 comma 7 cod. proc. pen è esplicita nel prevedere l’inutilizzabilità “relativa”, ovvero solo dibattimentale delle dichiarazioni spontanee, il che impedisce di ritenere che la regola specifica in essa prevista possa essere “vanificata” dalla disciplina generale (artt. 63 e 64 c.p.p.) che sancisce l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese dall’indagato senza garanzie.
La norma si configura piuttosto come un espressa eccezione a tale regola, che trova la sua la ratio nella natura eminentemente “difensiva” e “libera” delle dichiarazioni spontanee.
La scelta personalissima dell’indagato di offrire la propria versione dei fatti è, infatti, tutelata dal codice di rito sia che l’accusato decida di rivolgersi alla polizia giudiziaria, sia che lo stesso si presenti al pubblico ministero (come previsto dall’art. 374 cod. proc. pen.).
Nel caso in cui le dichiarazioni spontanee siano rese senza garanzie alla Polizia Giudiziaria il legislatore ha precisato il regime di utilizzabilità limitando l’utilizzo delle dichiarazioni alla fase procedimentale, ovvero alla cognizione cautelare ed a quella sulla responsabilità che si svolge nei riti a prova contratta (nella piena disponibilità dell’accusato).
Se cosi è, anche per rispettare la ratio decidendi espressa dalla Corte di Strasburgo, risulta essenziale lo scrutinio della spontaneità delle dichiarazioni che deve essere valutata dal Giudice sulla base degli elementi disponibili. Sul punto il collegio condivide la giurisprudenza secondo cui spetta al giudice accertare anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, la effettiva natura spontanea delle stesse, dando atto di tale valutazione con motivazione congrua ed adeguata.
(Cass. Penale Sez. Seconda, sentenza 13 – 28 marzo 2018, n. 14320)

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