Non viola il divieto della reformatio in peius la sentenza di secondo grado che accolga la domanda di provvisionale proposta per la prima volta in appello dalla parte civile non impugnante.
La novita’ della domanda esclude la violazione del divieto di reformatio in peius, il quale postula che la richiesta di provvisionale sia stata gia’ proposta e respinta, sia pure parzialmente, dal giudice di primo grado, senza impugnazione della stessa parte civile.

(Cass. Penale, Sez. I, 

Sentenza 4 maggio 2011, n. 17240
)

Corte Suprema di Cassazione
Sezione Prima Penale
Sentenza 4 maggio, n. 17240

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 


Dott. CHIEFFI Severo – Presidente 


Dott. IANNELLI Enzo – Consigliere 


Dott. BARBARISI Maurizio – Consigliere
Dott. MAZZEI Antonella – rel. Consigliere 


Dott. CARTA Adriana – Consigliere 


ha pronunciato la seguente: 



SENTENZA

sul ricorso proposto da:


Imputati:

Br. Ci. , nato a (OMESSO);

Ca. An. , nato a (OMESSO);

Fu. Pa. Se. , nato a (OMESSO);

In. Fr. , nato a (OMESSO);

Ra. Ra. , nato a (OMESSO);

R. M. , nato a (OMESSO);

Sc. Al. , nato a (OMESSO);

e sul ricorso proposto dalle parti civili:

C. M. , nata a (OMESSO);

La. St. , nata a (OMESSO);

avverso la sentenza della Corte di assise di appello di Catania del 23/11/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita, nella pubblica udienza del 2 febbraio 2011, la relazione svolta dal Consigliere Dott. Antonella Patrizia Mazzei;


udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SPINACI Sante, il quale ha chiesto il rigetto dei ricorsi degli imputati e, in accoglimento del solo ricorso delle parti civili, l’annullamento parziale della sentenza con rinvio al giudice civile competente;


rilevato che non e’ comparso il difensore delle parti civili;

udito il difensore, avvocato Cali’ Carmelo, per il ricorrente Fu. , il quale, in accoglimento del ricorso, ha chiesto l’annullamento della sentenza con rinvio;
udito il difensore, avvocato D’Amico Angelo, per i ricorrenti Fu. , Ra. , Br. e R. , il quale, in accoglimento dei rispettivi ricorsi, ha chiesto l’annullamento della sentenza con rinvio;
udito il difensore, avvocato Manago’ Antonio per i ricorrenti, In. e Ca. , il quale, in accoglimento del ricorso, ha chiesto l’annullamento della sentenza con rinvio.



RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di assise di appello di Catania, con sentenza in data 23 novembre 2009, depositata il 19 aprile 2010, ha confermato la sentenza della Corte di assise del Tribunale di Siracusa, in data 16 marzo 2007, di condanna di Fu. Pa. Se. , Ca. An. e In. Fr. alla pena dell’ergastolo per il delitto di omicidio pluriaggravato di La. Lu. , commesso, in concorso tra loro e con Pi. Vi. (separatamente giudicato) e Ma. Fr. (assassinato nel (OMESSO)), in (OMESSO) (capo 1A) della rubrica); di condanna del solo Fu. anche all’isolamento diurno per mesi due per il delitto (in continuazione con l’omicidio) di distruzione del cadavere del La. , commesso, in concorso con Pi. Gi. (separatamente giudicato), il (OMESSO) (capo 1B)); di condanna di Ra. Ra. alla pena di anni quattordici di reclusione per i reati (unificati col vincolo della continuazione) di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (esclusa l’aggravante del numero degli associati) e di detenzione delle medesime sostanze (esclusa l’aggravante della quantita’ ingente), commessi in (OMESSO), tra la fine del (OMESSO) e l’inizio del (OMESSO) (capi 2A) e 2B)); di condanna di Sc. Al. e R. M. alle pene, rispettivamente, di anni otto di reclusione ed euro 1.700,00 di multa (il primo) e di anni sette e mesi sei di reclusione ed euro 1.500,00 di multa (il secondo), per i delitti, commessi in concorso tra loro e con M. M. (ucciso il (OMESSO)), di tentata estorsione continuata in danno dell’impresa ” Co. s. di. Pe. , in persona di uno dei suoi soci, F. S. , e di danneggiamento seguito da incendio dei locali della medesima ditta, fatti – riuniti in continuazione – commessi tra il (OMESSO) (capi 4A) e 4B)); di condanna, infine, di Br. Ci. alla pena di anni sei di reclusione ed euro 1.000,00 di multa per il delitto di tentata estorsione in danno dei fratelli P. A. e P. F. , titolari dell’omonima autocarrozzeria, limitatamente all’episodio commesso nell'(OMESSO) (capo 3A)).
La sentenza d’appello ha confermato quella di primo grado anche con riguardo alla circostanza aggravante prevista dal Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7, convertito in Legge n. 203 del 1991, ritenuta sussistente per tutti i reati contestati; all’applicazione delle pene accessorie; e alle statuizioni in favore delle parti civili costituite: C. M. e La. St. (rispettivamente moglie e figlia dell’ucciso), Comune di (OMESSO) e A.P.I.L.C. ( As. Pr. Im. Le. Ca. ), condannando gli imputati al pagamento delle spese processuali per il giudizio d’appello, sostenute dalle parti civili, contestualmente liquidate.

In motivazione la Corte territoriale inquadra i fatti giudicati nell’attivita’ dell’associazione di tipo mafioso, facente capo a Na. Se. , attiva in (OMESSO), consociata dei clan mafiosi siracusani degli Apara e dei Trigila, e, insieme, confederati nella piu’ vasta associazione mafiosa Santapaola di (OMESSO), richiamando, al riguardo, le risultanze dei processi denominati ” Gi. ” e ” Ta. “, gia’ sfociati in sentenze irrevocabili acquisite agli atti, che avevano accertato la genesi, la struttura, l’attivita’ e le reciproche relazioni delle predette aggregazioni mafiose.


Tra la meta’ e la fine degli anni novanta, in conseguenza della detenzione subita dal Na. , la direzione del gruppo criminale fu assunta da Pi. Vi. e Ma. Fr. : in questa fase si inserisce la scomparsa di La. Lu. , affiliato alla medesima cosca, il quale, nel mattino del (OMESSO), lascio’ la sua abitazione, in (OMESSO), senza farvi ritorno e senza piu’ dare notizie di se’.

Nel 2004 iniziarono a collaborare con la giustizia i fratelli, Pi. Vi. nel mese di gennaio e Pi. Gi. (detto Ni. ) nel mese di febbraio, i quali riferirono sulla composizione e le attivita’ dell’associazione e sulla scomparsa del La. .

Pi. Vi. confesso’ di essere stato, insieme a Ma. Fr. (morto ammazzato nel (OMESSO)) e a Fu. Se. Pa. , il mandante e l’esecutore, con il contributo di due giovani affiliati, Ca. An. e In. Fr. , dell’omicidio del La. , divenuto inviso al gruppo criminale per i suoi comportamenti spavaldi e per essersi autonomamente appropriato il provento di attivita’ estorsive.
Il collaboratore descrisse nei particolari il delitto, in cui furono utilizzati come “esca” i cugini, Ca. e In. , entrati nell’associazione proprio tramite il La. che si fidava di loro, ma anch’essi insofferenti alle prepotenze della vittima.

Il Ca. e l’ In. comunicarono al La. che era atteso da altri componenti della cosca per parlare di affari di comune interesse e lo accompagnarono, nel primo mattino del (OMESSO), presso un casolare di campagna, fuori dal paese, dove sopraggiunsero Pi. Vi. , il Ma. e il Fu. .

Il La. fu subito accerchiato e immobilizzato dai cinque antagonisti, i quali lo ammazzarono stringendogli al collo una catena metallica, da loro trovata nello stesso casolare, fino a soffocarlo.
Per accertarsi che la vittima fosse morta il Pi. infilo’ in una delle sue narici una lima, anch’essa rinvenuta sul posto, che trapasso’ la faccia del La. fino a raggiungere il cranio.


Il cadavere fu, quindi, collocato sopra una rete e trasportato a braccia nell’agrumeto circostante, dove, a circa venti metri di distanza dal casolare, fu deposto e coperto con foglie ed erba, dopo essere stato privato del telefono cellulare, delle chiavi, di carte ed altro: il telefono fu immediatamente bruciato, le chiavi e il resto furono poggiati su una canaletta di irrigazione, solo la catena in oro rimase indosso alla salma.


Tornato a casa, il Pi. incontro’ il fratello, Gi. , del quale si avvaleva per compiti specifici di interesse associativo, e gli ordino’ di farsi trovare nel pomeriggio presso una specificata localita’ di campagna, dove avrebbe incontrato

Il Fu. per svolgere, insieme a lui, un servizio.

Pi. Gi. riferi’ di avere ottemperato al mandato del fratello e di avere incontrato verso le ore 17 di quello stesso giorno, (OMESSO), il Fu. , il quale lo guido’ sul posto dove era stato deposto il cadavere del La. .

Prelevarono, quindi, una carriola su cui caricarono la salma e, non senza fatica, alternandosi per il notevole peso di essa, la trasportarono in un altro posto di campagna, non coltivato, dove erano gia’ presenti alcuni copertoni e legna secca, sui quali adagiarono il cadavere, appiccandovi il fuoco.


Durante la combustione, durata circa 4-5 ore, il Fu. riferi’ al Pi. , il quale nel bagliore della fiamma aveva riconosciuto il volto del La. , che quest’ultimo era stato ucciso dal fratello, Pi. Vi. , dallo stesso Fu. , da Ma. Fr. e dai cugini, Ca. e In. , a causa del suo comportamento arrogante e irrispettoso delle regole.

Terminata l’operazione, i frammenti scheletrici piu’ grossi furono raccolti sulla carriola e buttati in un canale di scolo di acqua piovana poco distante.

Il Fu. e il Pi. ripercorsero, quindi, la strada fatta e si congedarono.

Il giorno dopo, in mattinata, Pi. Gi. incontro’ il fratello, Vi. , il quale gli confermo’ i nomi degli autori dell’omicidio, gia’ rivelatigli dal Fu. , senza specificare il movente e ammettendo di essere stato lui stesso ad inserire la lima nel naso del La. per assicurarsi della sua morte.

2.
Nella disamina dei delitti di omicidio e distruzione del cadavere (capi A1) e A2)), la Corte territoriale apprezza la credibilita’ delle dichiarazioni dei fratelli Pi. sia sul piano della loro attendibilita’ intrinseca, soggettiva ed oggettiva, sia sul piano dell’affidabilita’ estrinseca, ritenendole confortate da riscontri oggettivi e individualizzanti con riguardo a ciascuno degli altri indicati autori dei reati.

Ripercorrendo l’iter motivazionale della sentenza di primo grado ed esaminando i motivi di impugnazione, la Corte d’assise d’appello rileva, innanzitutto, il disinteresse dei propalanti, sulla base del rilievo che si erano accusati, per primi, di un fatto lontano nel tempo di cui non esisteva alcun indizio a loro carico, disinteresse non offuscato dalla necessita’ di dimostrare il loro ravvedimento, posto che la lealta’ della collaborazione non postula il pentimento morale dei dichiaranti; sottolinea, inoltre, l’autonomia delle narrazioni dei due fratelli, ciascuno rievocante, in sintonia col proprio ruolo, una specifica fase dell’attivita’ criminosa: quella ideativa ed esecutiva, descritta da Pi. Vi. ; e quella immediatamente successiva all’omicidio, diretta a cancellarne le tracce e a distruggere il cadavere, riferita da Pi. Gi. .

Le chiamate in correita’, oltre ad essere soggettivamente credibili, sono ritenute in sentenza oggettivamente attendibili per la loro precisione, costanza e resistenza alle critiche dedotte.
Con riguardo all’omicidio narrato da Pi. Vi. , i difensori avevano rilevato la mancata predisposizione di armi nonostante la riferita programmazione del delitto; l’inidoneita’ della catena, rinvenuta dai Carabinieri nel casolare indicato dal collaboratore, ad essere stretta intorno al collo del robusto La. , essendo lunga solo cinquanta centimetri’; l’uso e gli effetti della lima, dichiaratamente impiegata dal Pi. per sincerarsi della morte della vittima, ancora rantolante dopo lo strangolamento, oggetto di contraddittorie dichiarazioni dei chiamanti in contrasto, altresi’, con le elementari nozioni di biologia umana.

Con riguardo al racconto di Pi. Gi. , i difensori avevano rimarcato la distanza di circa sei chilometri tra il riferito luogo di iniziale collocazione del cadavere e quello indicato come sede della sua distruzione, e il silenzio del medesimo chiamante, nelle iniziali dichiarazioni al Pubblico ministero, sull’uso di una carriola per il trasporto della vittima.


Ad avviso della Corte territoriale, invece, proprio l’originalita’ dei predetti elementi non tutti rispondenti all’astratta logica del delitto perfetto che non e’ quella degli autori reali di un concreto fatto di sangue, conforta la genuinita’ e l’indipendenza delle dichiarazioni dei collaboratori, senza tacere l’inesattezza storica dei rilievi difensivi in merito alla catena, che sarebbe stata appoggiata sul collo della vittima e tirata a turno dagli assassini e non avvolta intorno ad esso, e con riguardo alla distanza tra il luogo di iniziale deposizione e quello di combustione del cadavere, che, pur corrispondendo ad oltre 6 km di tratto stradale, misurato a passi non era piu’ lungo di 100 o, al massimo, 200 metri di percorso di campagna, come da sopralluoghi eseguiti dai Carabinieri e dal consulente-geometra incaricato dagli stessi difensori.


I riscontri esterni alle dichiarazioni dei chiamanti sono individuati dalla Corte di merito, sul piano oggettivo, negli accertamenti eseguiti dai militari dell’Arma sui luoghi indicati, corrispondenti alle descrizioni dei fratelli Pi. , e, in particolare, nel rinvenimento, all’interno del casolare di campagna in cui sarebbe stato eseguito l’omicidio, di una catena individuata in quella utilizzata per il soffocamento del La. , e, nei pressi del luogo scelto per il rogo del cadavere, di oggetti vari, con tracce evidenti di ossidazione e combustione, tra cui pezzi di copertoni combusti, frammenti ossei, residui di stoffa e bottoni, una lima e un mazzo di sei chiavi, quest’ultime di pertinenza della vittima per l’accertata idoneita’ ad aprire immobili nella sua privata disponibilita’.


Altro fondamentale riscontro storico e’ costituito, secondo la Corte d’appello, dalla definitiva scomparsa del La. dal suo ambiente socio-familiare di vita e di radicamento delinquenziale, cio’ che avvalora la realta’ del suo assassinio e della distruzione del cadavere mai piu’ rinvenuto.

La tesi alternativa, sostenuta dalle difese degli imputati, di una prolungata latitanza del La. perche’ colpito, come appartenente alla cosca Nardo, da provvedimento privativo della liberta’ personale, e’ smentita, secondo la Corte, dall’immediata denuncia della sua scomparsa, il (OMESSO), da parte della moglie; dalla costituzione della stessa e della figlia come parti civili in questo processo e dalle successive minacce da loro subite ad opera di ignoti; dal rinvenimento, sul luogo della combustione del cadavere, di un mazzo di chiavi di pertinenza del La. ; dal comportamento dell’imputato In. , il quale non tardo’ ad appropriarsi, gia’ all’indomani della scomparsa, di un fondo agricolo precedentemente da lui gestito insieme al La. , comportamento spiegabile con la consapevolezza dell’omicidio di quest’ultimo.

Particolare attenzione e’ dedicata, in sentenza, alle indagini tecniche sui frammenti ossei rinvenuti sul luogo del riferito rogo, gia’ sottoposti ad esame medico-legale ed a consulenza biologica da parte degli esperti del P.M. in primo grado, dott. B. G. (specialista in medicina legale) e d.ssa Gr. Ag. (biologa specialista in citogenetica umana).
Lo stato di grave degrado dei resti (frammenti anneriti, calcinati e in parte polverizzati) non aveva consentito di estrarre da essi il DNA nucleare e di stabilire, sulla base dell’analisi del codice genetico, la loro origine umana o animale.
Disposta, in sede di parziale rinnovazione del dibattimento in appello, perizia biologica affidata al Maggiore, dott. L. G. del R.I.S. dei Carabinieri di Roma, si accerto’ l’appartenenza dei reperti ossei a specie umana e dal frammento piu’ grande fu possibile estrarre il DNA mitocondriale, meno resistente e piu’ facilmente contaminabile rispetto al DNA nucleare normalmente usato nelle indagini forensi, ma presente in elevato numero di copie – nell’ordine di migliaia in ciascuna cellula – rispetto a quello nucleare – presente solo in duplice copia per ogni cellula – non isolabile nei reperti a disposizione.


Il DNA mitocondriale, prelevato in pochissime unita’ di scarsa potenzialita’ identificativa, come preannunciato dal perito, fu quindi comparato con quello estratto tramite tampone salivare dalle sorelle del La. , con un risultato di non compatibilita’, che, secondo il chiarimento reso nel corso dell’esame dibattimentale dall’esperto e valorizzato in sentenza, deve intendersi come un esito di inconcludenza dell’indagine genetica non in grado di affermare ma neppure di escludere l’appartenenza del DNA mitocondriale alla vittima, in considerazione della contaminazione eterologa non recente del medesimo, particolarmente sensibile ad alterazioni anche soltanto toccandolo, e, perfino, parlando o respirando su di esso, cio’ che si era certamente verificato, nel caso in esame, durante il ritrovamento, prelievo, esame e confezionamento dei reperti.


Risulta, comunque, di grande valenza confermativa delle dichiarazioni dei collaboratori, secondo la Corte territoriale, unitamente agli altri elementi raccolti, l’accertata origine umana dei frammenti ossei.


Quanto ai riscontri individualizzanti, essi sono ravvisati nelle convergenti ma autonome dichiarazioni dei fratelli Pi. , ciascuno dei quali aveva riferito in via diretta su fasi diverse dell’unica vicenda criminosa e in modo indiretto solo sulla parte della condotta cui non aveva personalmente partecipato, fermo restando che proprio Pi. Vi. aveva concordato con il Fu. il rogo del cadavere, e assumendo ulteriore rilevanza individualizzante la circostanza che gli autori dell’omicidio erano stati riferiti a Pi. Gi. , innanzitutto, dal Fu. nel corso della lunga seduta comune, in attesa che il fuoco consumasse la salma del La. .
Con specifico riguardo alla posizione dell’imputato Fu. , la Corte di merito valorizza, inoltre, la sua consolidata appartenenza alla cosca Nardo, emersa non solo dalle convergenti dichiarazioni dei fratelli Pi. , ma anche dall’esame di altro collaboratore di giustizia, Vi. Vi. ; la non ostativita’, in concreto, delle sue precarie condizioni di salute, essendo sofferente di cardiopatia, alla partecipazione al delitto con i compiti indicati dai chiamanti; l’inattendibilita’ della prova d’alibi assunta su richiesta dello stesso imputato; la non significativita’ contraria alla versione dei fratelli Pi. delle dichiarazioni del collaboratore, R. M. , esaminato su istanza della difesa, circa precedenti tentativi di omicidio del La. , che, all’opposto, confermavano la maturata ostilita’ del gruppo nei confronti del sodale, ritenuto non piu’ affidabile, e la consolidata decisione di sopprimerlo.


Con riguardo alle posizioni del Ca. e dell’ In. , la Corte individua i riscontri individualizzanti nelle convergenti chiamate in reita’ dei fratelli Pi. , confortate dalle confidenze del Fu. a Pi. Gi. in merito agli autori del delitto, e nella pur provata appartenenza dei predetti imputati al medesimo sodalizio criminale con privilegiato legame instaurato proprio col La. , che li rendeva, pertanto, particolarmente adatti, nella predisposizione del delitto, ad attirare la vittima designata nella rete dei suoi assassini.


3. In merito ai delitti di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (eroina e cocaina) e di detenzione delle medesime sostanze (chilogrammi 2.040 di cocaina) a fini di spaccio, l’uno e l’altro contestati a Ra. Ra. , in concorso con altri dieci imputati (tra i quali Pi. Vi. ) separatamente giudicati, reati commessi nelle aree geografiche di (OMESSO), tra la fine del (OMESSO) e l’inizio del (OMESSO), la Corte territoriale ritiene provata la penale responsabilita’ del Ra. sulla base dei risultati delle intercettazioni telefoniche ed ambientali; delle annotazioni di servizio della Questura di Siracusa, relative ad attivita’ investigative collaterali alle operazioni captative (pedinamenti e appostamenti); e delle sopravvenute propalazioni dei chiamanti in correita’, Pi. Vi. e Vi. Vi. .


Ad avviso del giudicante, le precise, costanti e convergenti dichiarazioni dei collaboratori, Pi. e Vi. , il primo con ruolo apicale nella cosca Nardo e il secondo referente del gruppo nel territorio di (OMESSO), entrambi indicanti il Ra. come uomo di fiducia nella gestione del traffico della droga, e l’accertata esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio delle sostanze stupefacenti, costituente articolazione di quella mafiosa, gia’ riconosciuta come tale con le sentenze irrevocabili del GUP del Tribunale di Catania in data 19/01/2002 e della Corte di appello di Catania del 3/06/2003, costituiscono, nel loro insieme, un solido impianto probatorio per confermare la penale responsabilita’ del Ra. per entrambi i delitti ascrittigli, non essendo di ostacolo alla sussistenza del vincolo associativo la limitata durata di esso e il ruolo esecutivo svolto dall’imputato nella gestione dei traffici di droga sotto la stretta direzione di Pi. Vi. , come riferito da quest’ultimo, divenuto collaboratore successivamente alle predette sentenze ed anche a quella del Tribunale di Siracusa del 17/10/2002, con la quale lo stesso Pi. era stato gia’ condannato per traffico di sostanze stupefacenti, ma assolto dal delitto di associazione finalizzata al narcotraffico.

Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte di merito rileva che la richiesta attenuante di cui all’articolo 114 c.p., comma 1, oltre ad essere preclusa dal comma 2, medesima norma, sussistendo la circostanza aggravante di cui all’articolo 112 c.p., comma 1, contrasta con la non marginale rilevanza e la reiterazione dell’opera prestata dall’imputato negli illeciti relativi alle sostanze stupefacenti, commessi in contesto di criminalita’ organizzata di tipo mafioso; sono, infine, negate le circostanze attenuanti generiche e la riduzione della pena inflitta al Ra. dal giudice di primo grado, in considerazione dei suoi allarmanti precedenti per rapina, detenzione illegale di armi ed altro.


4. La Corte d’Assise d’appello ha confermato la dichiarazione di responsabilita’ di R. M. e Sc. Al. , coimputati insieme a M. M. , deceduto nelle more del giudizio d’appello, per i delitti di tentata estorsione aggravata e di danneggiamento seguito da incendio, commessi tra il (OMESSO) ed il (OMESSO), consistiti inizialmente nell’indirizzare a Ga. Gi. e F. S. , rispettivamente dipendente e socio della ditta ” Co. s. di. Pe. , una serie di telefonate minatorie anonime, annuncianti un imminente attentato incendiario in caso di omesso versamento della somma di lire 200 milioni, e, quindi, nel cagionare un incendio di vaste proporzioni a due autocarri e altri beni aziendali con danni per circa euro 120.000,00.

A ragione la Corte d’appello adduce i seguenti elementi: a) gli esiti dell’attivita’ investigativa, nella notte tra il (OMESSO), relativi alle consistenti “anomalie” del comportamento tenuto da tale Ra. An. , nipote del capo cosca, Na. Se. , sorpreso dai Carabinieri nell’immediatezza dell’incendio in danno dell’impresa Co. e in prossimita’ del luogo di esso; b) le sopravvenute propalazioni rese sulla vicenda delittuosa dal collaboratore di giustizia, Pi. Vi. , chiamante in reita’ lo stesso Ra. , M. M. , R. M. e Sc. Al. ; c) i contenuti delle comunicazioni telefoniche intercettate nel ristretto arco temporale del consumato danneggiamento mediante incendio, nella notte tra il (OMESSO), sull’utenza cellulare in uso congiuntamente al R. e al M. , e su quella utilizzata dallo Sc. , il quale, secondo la ricostruzione ritenuta provata in sentenza, subentro’ al Ra. nel ruolo di “staffettista” o “sentinella”, a copertura dell’azione incendiaria materialmente attribuita al R. e al M. , dopo che il Ra. (la cui posizione e’ stata stralciata e separatamente giudicata per incompatibilita’ di uno dei giudici componenti la Corte di primo grado) aveva subito il controllo dei Carabinieri solo pochi minuti prima dell’esplosione dell’incendio e, come si e’ detto, in prossimita’ di esso.

Quanto alle intercettazioni, la Corte respinge l’eccezione di inutilizzabilita’ delle stesse, fondata sul rilievo della carenza motivazionale del ricorso agli impianti installati presso i Carabinieri di Augusta anziche’ a quelli esistenti presso la Procura della Repubblica di Siracusa, osservando che i decreti autorizzativi, emessi in via d’urgenza dal P.M. il 3 e il 19 giugno 2002, avevano sufficientemente motivato l’inidoneita’ investigativa degli impianti installati presso la Procura mediante il richiamo alle medesime ragioni addotte a supporto dell’urgenza ovvero alla necessita’ di assicurare l’immediato raccordo tra l’attivita’ di ascolto e quella di intervento sul territorio.
5. La Corte territoriale, infine, ha ritenuto provata la penale responsabilita’ di Br. Ci. a titolo di concorso nel tentativo continuato di estorsione, commesso in (OMESSO), mediante minaccia e violenza – consistite nel collocare due proiettili per pistola calibro 7,65 davanti al portone di ingresso della carrozzeria dei fratelli P. Alfioe. Fr. ; nell’indirizzare a P. A. A. , figlio di Fr. , alcune telefonate minatorie; nell’incendiare l’autocarro Fiat Iveco, di proprieta’ dei P. , parcheggiato sul piazzale antistante la loro carrozzeria – dirette a farsi consegnare somme imprecisate di denaro dagli stessi P. , senza riuscirvi per il rifiuto delle persone offese ad assecondare tali richieste.

L’affermazione di penale responsabilita’ e’ fondata sul fatto che, dopo l’Incendio dell’autocarro Fiat Iveco subito dalle persone offese, il Br. si presento’ a P. A. e si offri’ di intervenire per “sistemare la vicenda”, come testimoniato dalla persona offesa e riconosciuto dallo stesso imputato.

Secondo la tesi difensiva, si tratto’ di un’autonoma iniziativa del Br. per esprimere ai P. , gia’ suoi conoscenti, sincera solidarieta’, o, al piu’, di un atto di mera millanteria.


Ad avviso della Corte, invece, la provata visita del Br. al P. con l’offerta di aiuto rivolta alle persone offese, pochi giorni dopo l’incendio dell’autocarro sul piazzale dell’autocarrozzeria, costituisce pieno riscontro delle dichiarazioni accusatorie di Pi. Vi. , il quale indico’ proprio nel Br. , persona conosciuta dai P. , non affiliata alla cosca Nardo e percio’ esponente quest’ultima a minori rischi, l’emissario piu’ idoneo al ruolo di “amico buono” per portare a compimento la condotta estorsiva in danno delle persone offese.


Non assumerebbero rilievo contrario alla detta ricostruzione la mancata incriminazione del M. (presunto mandante dell’estorsione) e l’assoluzione del R. , coimputato col Br. del medesimo reato, pronunciata dal giudice di primo grado in applicazione della regola di giudizio che esclude l’autosufficienza probatoria delle dichiarazioni accusatorie dell’imputato in procedimento connesso, quale deve ritenersi il chiamante in reita’, Pi. Vi. , rispetto al delitto de quo, in mancanza di riscontri esterni, nella fattispecie sussistenti solo a carico del Br. e non anche degli altri presunti autori del medesimo fatto.
Parimenti irrilevante, secondo la Corte territoriale, per escludere il concorso dell’imputato nella condotta estorsiva sarebbe la circostanza che egli non proferi’ esplicite minacce nei confronti dei P. , essendo pacifico che l’intimidazione costitutiva del delitto di estorsione puo’ essere anche implicita e indiretta, e il fatto che le persone offese non avevano confermato di avere replicato all’offerta di aiuto, loro rivolta dal Br. , facendo il nome di tale Fl. , altro affiliato alla cosca Nardo, dal quale sarebbero stati gia’ contattati, secondo le dichiarazioni del Pi. , essendo, al contrario, proprio la riluttanza delle persone offese ad ammettere di aver subito un tentativo di estorsione, e a rivelare i nomi di tutte le persone in esso coinvolte, sintomatica della situazione di assoggettamento ed omerta’ indotta dall’egemonia del gruppo criminale sul territorio, di cui si avvalse anche il Br. nel suo intervento, donde la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7, convertito in Legge n. 203 del 1991, nel reato in esame.


6. Avverso la predetta sentenza ricorrono a questa Corte tutti gli imputati tramite i rispettivi difensori: l’avvocato D’Amico per gli Imputati Fu. , Ra. , R. e Br. ; e l’avvocato Antonio Manago’ per gli imputati Ca. , In. e Sc. .

Ricorrono altresi’ le parti civili, C. M. e La. St. .


7.1. Con i primi tre motivi, ai sensi dell’articolo606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all’articolo 192 c.p.p., comma 3, e all’articolo 61 c.p., n. 4, articolo 110 c.p., articolo 112 c.p., n. 1, articolo 575 c.p., articolo 577 c.p., nn. 3 e 4, e al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, l’avvocato D’Amico per il Fu. denuncia il vizio di motivazione della decisione sotto plurimi profili: carenza di motivazione con riguardo alla genesi della collaborazione dei fratelli Pi. e alla loro credibilita’ soggettiva, che sarebbe inficiata dai logorati rapporti con gli altri membri dell’associazione criminale e dall’ostilita’ dei chiamanti verso i sodali, non adeguatamente apprezzata dalla Corte di merito al fine di inferirne il carattere non disinteressato delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie, considerato, altresi’, che Pi. Vi. , gia’ imputato di gravissimi reati, nulla avrebbe rischiato autoaccusandosi dell’omicidio del La. ; difetto di motivazione in merito ai riscontri esterni alle narrazioni dei chiamanti in correita’ ed in reita’, ravvisati nelle medesime circostanze da loro riferite (casa colonica su fondo agricolo quale teatro del delitto, mezzi e modalita’ di esso), secondo un’aberrante logica circolare e tautologica, interna alle dichiarazioni degli stessi chiamanti, senza specifica attinenza dei pretesi riscontri al fatto e ai suoi presunti autori, e con vistosi cedimenti logici relativi alla catena utilizzata per lo strangolamento (essendo palesemente inidonea quella rinvenuta rispetto alle notevoli dimensioni della vittima e al suo collo taurino), alle modalita’ di trasporto del pesante cadavere con una carriola per un lunghissimo tratto in zona controllata dalle forze dell’ordine, e alla totale assenza di tracce biologiche su tutti gli oggetti metallici rinvenuti sul luogo del presunto rogo; vuoto motivazionale anche con riguardo alle condizioni di grave cardiopatia, in atti documentata e attestata dalle dichiarazioni di medici specialisti, sofferta dal Fu. gia’ al tempo del delitto attribuitogli, unitamente ad un forte stato depressivo, tali da impedirgli anche lo svolgimento di regolare attivita’ lavorativa e, percio’, del tutto incompatibili col ruolo attribuito all’imputato dai fratelli Pi. sia nell’esecuzione dell’omicidio, sia nelle successive faticose operazioni di trasporto e combustione del cadavere; errato apprezzamento come confessione stragiudiziale delle confidenze che il Fu. avrebbe fatto a Pi. Gi. circa le modalita’, il movente e gli autori dell’omicidio, dovendo esse considerarsi, in accordo con la giurisprudenza di legittimita’, solo un indizio neppure grave del fatto-reato e risultando, inoltre, poco credibile che il Fu. , investito di un ruolo preminente nella presunta associazione mafiosa, avesse fatto compromettenti rivelazioni a Pi. Gi. , il quale, per ammissione degli stessi collaboratori, aveva una posizione subordinata nel medesimo sodalizio; immotivata pretermissione di identificazione e audizione dei proprietari-possessori dei fondi su cui sarebbe stato consumato il delitto e le successive operazioni di trasporto e combustione del cadavere, pur costituendo le loro conoscenze potenziali e reali riscontri, nella remota ipotesi positiva, alle accuse dei collaboratori; vizio di motivazione, infine, in merito alla causale dell’omicidio desunta solo dalle dichiarazioni dei fratelli Pi. .
Il difensore del Fu. lamenta, inoltre, la contraddittorieta’ dell’impugnata sentenza e il travisamento della prova anche ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), in relazione agli articoli 191 e 526 c.p.p., laddove ritiene non significativo, per escludere l’identificazione nel La. della persona cui appartennero i frammenti ossei rinvenuti, l’esito negativo di compatibilita’ genetica dei medesimi col DNA delle germane della vittima, desumendo, al contrario, la certezza di siffatta identita’ da elementi del tutto congetturali e di sicura inferiore valenza dimostrativa, tra cui, oltre alle dichiarazioni non riscontrate dei non attendibili chiamanti, una serie di circostanze, cosi’ riepilogate: scomparsa del La. ; immediata denuncia di essa da parte della moglie; costituzione delle congiunte come parti civili e successivi atti intimidatori che le stesse avrebbero subito ad opera di ignoti; rinvenimento delle chiavi della vittima sul luogo della riferita combustione, stranamente intonse nonostante il tempo decorso, la combustione e le avversita’ atmosferiche.
7.2. Con il quarto motivo l’avvocato D’Amico censura la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la dosimetria della pena, in violazione delle norme di cui agli articoli 62-bis e 133 cod. pen., e la carente motivazione in tema di trattamento sanzionatorio, non avendo la Corte di merito operato un opportuno bilanciamento tra la gravita’ del reato e le circostanze oggettive e soggettive favorevoli all’imputato, in modo da rendere la pena in concreto inflitta rispettosa del principio di ragionevolezza (articolo 3 Cost.) e della sua primaria finalita’ rieducativa (articolo 27 Cost.).


8.1. L’avvocato Antonio Manago’ per gli imputati Ca. e In. , denuncia, a sua volta, con ampi richiami giurisprudenziali, il vizio di motivazione della sentenza ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all’articolo 61 c.p., n. 4, articolo 575 c.p., articolo 577 c.p., nn. 3 e 4, e al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, con riguardo ai seguenti elementi: motivi della collaborazione dei fratelli Pi. non criticamente apprezzati; ingiustificata sottovalutazione delle contraddizioni del loro racconto, con particolare riguardo alla lunghezza e alle modalita’ d’impiego della catena che sarebbe stata adoperata per commettere il delitto, senza peraltro che su di essa siano state rinvenute tracce biologiche, e, piu’ preliminarmente, irragionevolezza delle stesse modalita’ di selezione dello strumento del delitto, essendo contrario ad ogni logica che un omicidio accuratamente programmato non contempli anche la predisposizione di armi adeguate e si affidi ad attrezzi di lavoro di probabile reperimento nel casolare di campagna eletto a luogo di commissione del reato; divergenze nelle dichiarazioni dei collaboratori in merito ad un ulteriore strumento utilizzato nell’assassinio, consistito nella lima che sarebbe stata conficcata nella narice (ovvero, come riferito in un altro passaggio, nell’occhio) della vittima per assicurarsi che fosse morta, sulla quale neppure furono ritrovate tracce organiche, e inverosimiglianza dell’affermazione di Pi. Vi. in merito alla scarsa fuoriuscita di sangue quando lo strumento fu infilato nel naso del La. , gia’ stramazzato al suolo ma non ancora spirato; notevole distanza (km 6.822) tra il luogo di iniziale nascondimento del cadavere e quello in cui fu trasportato per essere bruciato, con ammissione, nella stessa sentenza impugnata, dell’esistenza di un vuoto dichiarativo con riguardo al secondo segmento della vicenda criminosa relativo proprio al detto trasporto, sul quale nulla avrebbero dichiarato entrambi i collaboratori, cosicche’ arbitrarie sarebbero le ipotesi ricostruttive, al riguardo elaborate, e come tali riconosciute dallo stesso decidente; inutilizzabilita’ delle dichiarazioni attribuite al Fu. , quale presunto mandante ed esecutore dell’omicidio, integranti la pretesa “confessione stragiudiziale”, che, proprio perche’ incontrollabile, avendo come fonte lo stesso accusato dichiaratosi innocente, non puo’ acquistare alcun valore probatorio; rilevante discrasia tra le acquisizioni processuali relative alle chiavi appartenute al La. , che, secondo Pi. Vi. , sarebbero state poggiate su una canaletta di irrigazione subito dopo l’esecuzione del delitto, mentre si assume che esse furono rinvenute dai Carabinieri nel luogo di presunta combustione del cadavere e, quindi, ad una distanza di oltre 6 km dal posto indicato dal collaboratore, con denuncia di smarrimento, da parte della moglie del La. , intervenuta solo dopo il loro ritrovamento a distanza di anni.


La Corte territoriale, con argomentazione del tutto inadeguata, avrebbe attribuito la discordanza sull’ubicazione delle chiavi ad un mero errore mnemonico di Pi. Vi. e la tardiva denuncia di smarrimento della C. ad una dimenticanza di origine emotiva, omettendo di motivare sull’anomalo ritrovamento di esse a distanza di oltre cinque anni dal delitto e dopo molteplici eventi atmosferici, anche violenti, come un’alluvione abbattutasi sulla zona nel settembre 2003.
Altri elementi che evidenzierebbero le lacune e le contraddizioni della motivazione su punti decisivi della causa attengono, secondo il ricorrente, all’accertata non compatibilita’ dei resti ossei di origine umana col DNA delle sorelle della vittima e all’arbitrarieta’ della ritenuta identificazione dei medesimi resti con quelli del La. , sostenuta in sentenza sulla base di circostanze suscettibili di alternative spiegazioni erroneamente obliterate, come quella della latitanza della presunta vittima, essendo stata colpita, all’epoca, da ordinanza di custodia cautelare in carcere e, successivamente, condannata all’ergastolo all’esito del processo denominato “(OMESSO)”.


La sentenza impugnata non avrebbe, neppure, dato ragione della confusione in cui era incorso Pi. Vi. nella collocazione temporale del delitto, avendo inizialmente riferito che era stato commesso il (OMESSO), mentre successivamente lo aveva collocato nello stesso giorno della scomparsa del La. , il (OMESSO), confondendo l’inverno con la primavera; e avrebbe omesso di motivare con riguardo ad ulteriori motivi di impugnazione richiamati dal ricorrente con la citazione delle pagine (50-52) del proprio atto di appello.
Grave lacuna discenderebbe, poi, dalla negata acquisizione dei tabulati telefonici dei fratelli Pi. nell’immediatezza dell’avvio delle rispettive collaborazioni, per verificare eventuali contatti preventivi tra loro, considerato il fondato sospetto di un allineamento delle rispettive dichiarazioni, avendo Pi. Gi. riferito della partecipazione dei cugini, Ca. e In. , all’omicidio solo il (OMESSO), dopo cinque mesi dall’inizio della collaborazione del fratello e dopo quattro mesi dall’avvio della propria.
8.2. Con altri quattro motivi il difensore del Ca. e dell’ In. censura il difetto di motivazione della sentenza con riguardo alla riconosciuta aggravante del metodo mafioso o della finalita’ di agevolare le attivita’ illecite della cosca; denuncia la violazione dell’articolo 61 c.p., n. 4, per palese insussistenza della circostanza aggravante dell’avere agito con crudelta’, in essa prevista; lamenta il difetto di motivazione sia con riguardo alla componente ideologica che a quella cronologica della ritenuta aggravante della premeditazione, e, anche, in relazione al diniego delle attenuanti generiche nonostante la giovane eta’ di entrambi gli imputati, l’incensuratezza dell’ In. e i lievi precedenti penali del Ca. , rappresentando l’esigenza, alla stregua dei parametri indicati nell’articolo 133 cod. pen., di mitigare l’asprezza della pena.
9.1. L’avvocato Angelo D’Amico per Ra. Ra. deduce, con il primo motivo, inosservanza di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74 e Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, con riguardo alla ritenuta partecipazione dell’imputato all’associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, desunta, nella sentenza impugnata, da giudicati formatisi in processi cui il Ra. e’ rimasto estraneo ed incompatibile con la breve durata della sua presunta partecipazione, oggetto di contestazione nell’arco temporale compreso tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000, potendosi quindi attribuire al Ra. il solo reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 e non anche quello previsto dall’articolo 74 del medesimo decreto presidenziale, di cui difetterebbero gli elementi costitutivi.

9.2. Con il secondo motivo, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione agli articoli 62-bis, 114, 132 e 133 cod. pen. e in riferimento al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, il difensore lamenta il mancato riconoscimento, a favore del Ra. , dell’attenuante prevista dall’articolo 114 c.p., comma 1; l’omessa applicazione delle circostanze attenuanti generiche e l’errata dosimetria della pena per non avere il giudice operato un adeguato bilanciamento tra la gravita’ del reato e le circostanze oggettive e soggettive favorevoli all’imputato, con particolare riguardo alla posizione del Ra. subordinata a quella del Pi. e alle condizioni di vita personale e sociale dell’imputato.


10.1. L’avvocato D’Amico per R. M. deduce quattro motivi: con il primo, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), articolo 156 c.p., articolo 178 c.p., comma 1, lettera c), e articolo 179 c.p., commi 1 e 2, denuncia la nullita’ della sentenza impugnata per omesso intervento dell’imputato nel giudizio di secondo grado, essendo il R. detenuto dal 2 maggio 2008 anche in esecuzione della misura della custodia cautelare in carcere disposta dalla stessa Corte di assise di appello per i fatti contestatigli nel presente processo, dopo la scarcerazione per decorrenza dei termini, e, tuttavia, mai tradotto per partecipare alle udienze successive alla sua cattura ne’ rinunciante a comparire, ed erroneamente indicato come “libero” nell’intestazione della sentenza.

10.2.
Con il secondo motivo, ex articolo 606 c.p.p., comma 2, lettera b), in relazione all’articolo 271 c.p.p., comma 1 e articolo 268 c.p.p., comma 3, ultima parte, il ricorrente denuncia l’inutilizzabilita’ dei risultati – indicati in sentenza come prove a suo carico – delle intercettazioni telefoniche disposte con decreti adottati, in via d’urgenza, dal pubblico ministero in data 3 giugno 2002 e 19 giugno 2002, per mancanza di motivazione in punto a utilizzazione degli impianti in dotazione alla polizia giudiziaria invece di quelli installati negli uffici della Procura della Repubblica procedente, rappresentando che, in sede di precedente impugnazione della misura cautelare a suo carico, questa Corte di cassazione, sezione 2, con

sentenza del 16 dicembre 2004 (n. 4553/2005), dichiaro’ inutilizzabili le medesime intercettazioni ai sensi del citato articolo 271, comma 1, per violazione dell’articolo 268 c.p.p., comma 3, e, quindi, per le stesse ragioni vanamente rappresentate nel successivo giudizio di merito e qui riproposte.


10.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta il vizio di motivazione, a norma dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all’articolo 192 c.p.p. e, articolo 56, articolo 81, 1 cpv., articolo 110, articolo 629, comma 1, del Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, con riguardo all’affermazione della sua penale responsabilita’ per il delitto continuato di estorsione e danneggiamento seguito da incendio, fondata sulla labile chiamata in reita’ de relato del collaboratore, Pi. Vi. ; sulle opinabili valutazioni del maresciallo I. che avrebbe riconosciuto la sua voce tra quelle degli interlocutori delle comunicazioni telefoniche intercettate nella notte del danneggiamento in danno dell’impresa Co. ; e sulla consulenza tecnica del dott. La. Be. , incaricato dal P.M., il quale si era espresso in termini di mera probabilita’ e non di certezza con riguardo all’individuazione delle celle telefoniche e relativi luoghi interessati dalle comunicazioni telefoniche captate nella medesima occasione. I predetti elementi, ad avviso del ricorrente, non avrebbero consentito di affermare, al di la’ di ogni ragionevole dubbio, la sua responsabilita’ per i delitti ascrittigli e imporrebbero l’annullamento della sentenza impugnata.


10.4. Con il quarto motivo di gravame, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione agli articoli 62-bis, 132 e 133 cod. pen., il R. censura la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la dosimetria della pena, rilevando che la sanzione irrogatagli non sarebbe rispettosa del principio di ragionevolezza (articolo 3 Cost.) e della finalita’ rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 Cost., comma 3, di cui la congruita’ costituisce elemento essenziale.

11.1. L’avvocato Antonio Manago’ per Sc. Al. , coimputato del R. , deduce quattro motivi.


Con il primo denuncia la violazione di norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilita’, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), in riferimento all’articolo 268 c.p.p., comma 3 e articolo 271 c.p.p., comma 1, svolgendo, con estesi richiami alla giurisprudenza di legittimita’, la stessa censura mossa dal difensore del R. alle intercettazioni telefoniche poste a fondamento della decisione di condanna, poiche’ eseguite, senza idonea motivazione, mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, richiamando, a sua volta, precedente sentenza di questa Corte di legittimita’ in data 16 dicembre 2004 (n. 4552/2005), con la quale, in sede di impugnazione cautelare, era stata annullata la misura custodiale applicata allo Sc. sulla base della ritenuta inutilizzabilita’ dei risultati delle predette intercettazioni per le stesse ragioni vanamente rappresentate dall’imputato nel giudizio di merito e qui riproposte.


11.2. Con il secondo motivo, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all’articolo 192 c.p.p. e agli articoli 56 e 110 c.p., articolo 629 c.p., comma 1, come il primo corredato di ampie citazioni giurisprudenziali, il ricorrente lamenta il vizio di motivazione per avere la Corte di merito affermato la sua penale responsabilita’ sulla base di labili elementi di prova: la chiamata in reita’ de relato di Pi. Vi. , che, a sua volta, avrebbe appreso le notizie sul tentativo di estorsione in danno dell’impresa ” Co. ” da Fu. Pa. Se. , anche lui non partecipe al fatto; la mancata prova del collegamento tra gli autori delle telefonate minatorie e coloro che avrebbero appiccato il fuoco ai veicoli e ai beni dell’azienda tra il (OMESSO); l’omessa motivazione sulle seguenti aporie probatorie: continuazione dell’azione criminosa malgrado il previo controllo del Ra. , essendo pacifico che il fuoco fu appiccato dopo che quest’ultimo era stato sorpreso dai carabinieri e aveva avvisato i presunti complici; mancato reperimento, a bordo del veicolo del Ra. , di taniche di benzina e anche di radioline asseritamente usate, secondo le propalazioni del Pi. , per mantenersi in contatto con i complici; oscurita’ probatoria sulla natura dolosa dell’incendio per omessa acquisizione del rapporto di intervento redatto dai Vigili del fuoco; arbitraria traduzione del contenuto delle comunicazioni telefoniche intercettate in significati funzionali alla tesi accusatoria ed omessa esposizione delle ragioni giustificatrici di siffatta interpretazione.


11.3. Con il terzo motivo, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, lo Sc. lamenta l’errato riconoscimento della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito nella Legge n. 203 del 1991, di cui sarebbe assolutamente carente la prova.


11.4. Con il quarto motivo, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione agli articoli 62-bis e 133 cod. pen., il ricorrente denuncia la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della sua giovane eta’, e l’eccessiva entita’ della pena inflittagii per non avere il giudice di merito fatto buon governo dei criteri di cui all’articolo 133 cod. pen..


12.1. L’avvocato Angelo d’Amico, nell’interesse di Br. Ci. , deduce tre motivi.

Con il primo denuncia, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all’articolo 192 c.p.p. e agli articoli 56, 81, 1 cpv. e 110 c.p., articolo 629 c.p., comma 1, e al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7, convertito in Legge n. 203 del 1991, il vizio di motivazione della sentenza che avrebbe ingiustamente ignorato la plausibile versione dell’imputato, il quale, nell’ammettere fin dall’inizio una sola visita a P. A. per offrirgli la propria disponibilita’ ad aiutarlo nel difficile frangente dei danneggiamenti subiti, non avanzo’ alcuna richiesta di denaro e, a fronte del rifiuto dell’interlocutore, si allontano’ senza operare alcuna forzatura o pressione, manifestando pertanto che il suo intervento era mirato soltanto ad aiutare quelli che riteneva suoi amici, e non a trarre utilita’ per se’ od altri.

Aggiunge il ricorrente che le dichiarazioni accusatorie de relato del Pi. non possono, da sole, sostenere la sua condanna, precisando che esse non sono state ritenute sufficienti per incriminare il M. , indicato dal collaboratore come mandante del tentativo di estorsione in esame, e, neppure, per condannare R. M. , unico coimputato del Br. , assolto dal medesimo reato.


12.2. Con il secondo motivo lamenta il vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, per avere la Corte territoriale ravvisato la sussistenza della predetta circostanza aggravante ad effetto speciale, pur riconoscendo che il Br. non e’ mai stato affiliato alla cosca Nardo, come ammesso dallo stesso collaboratore, Pi. Vi. , e dagli esaminati verbalizzanti tra cui il comandante dei Carabinieri di (OMESSO), capitano S. .

Il ricorrente aggiunge che la sentenza non spiega come egli si sia avvalso, nella condotta ascrittagli, della forza di intimidazione esercitata sul territorio dalla predetta consorteria criminale, ne’ indica alcuna prova a conforto dell’assunto che abbia agito al fine di agevolare la medesima associazione.


12.3. Con il terzo motivo, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all’articolo 133 cod. pen., il Br. denuncia il difetto di motivazione della sentenza nella determinazione della pena inflittagli, ritenuta eccessiva e non ancorata al minimo edittale, avendo il giudice omesso di operare l’opportuno bilanciamento tra la gravita’ del reato e le circostanze oggettive e soggettive favorevoli all’imputato.

13. Le parti civili, C. M. e La. St. , denunciano ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione agli articoli 538 e 539 c.p.p., l’omessa pronuncia della Corte territoriale sulla loro specifica domanda, avanzata per la prima volta in grado di appello, di vedersi assegnata una provvisionale di euro 500.000,00 sul maggior danno subito per l’uccisione del loro congiunto.

Le ricorrenti richiamano la giurisprudenza di legittimita’ a sostegno dell’ammissibilita’ dell’assegnazione di provvisionale, pur in assenza di istanza della parte civile e per la prima volta in sede di appello, sempre che la relativa questione non sia stata gia’ trattata in primo grado e non abbia formato oggetto di pronuncia esplicita o implicita non impugnata, cio’ che non si sarebbe verificato nella fattispecie, non essendo stata l’assegnazione della provvisionale ne’ richiesta ne’ valutata d’ufficio nel primo giudizio.

Aggiungono che la mancata richiesta della provvisionale in primo grado e la non presentazione di specifico motivo di appello, sul punto, trovano spiegazione nella circostanza che le ragioni per chiedere la provvisionale sono intervenute quando i termini di impugnazione erano gia’ scaduti, cosicche’ la domanda e’ stata rassegnata, per la prima volta, nelle conclusioni formulate all’esito del giudizio d’appello e rimasta senza alcuna risposta della Corte adita, la quale si e’ limitata a confermare la condanna generica del Fu. , del Ca. e dell’ In. al risarcimento dei danni a favore delle stesse parti civili, da liquidare in separata sede, e a condannare i predetti imputati, in solido tra loro, soltanto al pagamento delle spese dell’ulteriore grado a loro favore.

CONSIDERATO IN DIRITTO

14. Sono infondati i motivi dei ricorsi proposti, nell’interesse degli imputati dei delitti di omicidio pluriaggravato e distruzione del cadavere, dall’avvocato Angelo D’Amico per Fu. Pa. Se. , difeso anche dall’avvocato Carmelo Cali, e dall’avvocato Antonio Manago’ per Ca. An. e In. Fr. .


14.1. Un primo gruppo di censure, comuni ai predetti imputati e di cui e’ pertanto opportuno l’esame congiunto, attengono alla denunciata mancanza di motivazione con riguardo all’attendibilita’ intrinseca, soggettiva e oggettiva, dei chiamanti in correita’, i fratelli Pi. Vi. e Pi. Gi. , e alla carente e/o contraddittoria valutazione degli indicati riscontri delle loro propalazioni.

Quanto alla valutazione di credibilita’ intrinseca soggettiva dei chiamanti, i difensori ripropongono, in questa sede, le medesime censure gia’ sollevate nel giudizio di appello cui la Corte territoriale ha dato adeguata e ampia risposta, osservando, in particolare, con riguardo a Pi. Vi. , la rilevanza della sua posizione nell’associazione di tipo mafioso, denominata clan “Nardo”, in cui aveva assunto un ruolo dirigenziale nel corso della carcerazione del capo, Na. Se. , donde l’originalita’ e la ricchezza del suo patrimonio conoscitivo, gia’ emersa anche in altri processi nei quali sono state acquisite le sue dichiarazioni, ritenute attendibili in sentenze irrevocabili; l’autenticita’ e il disinteresse della scelta collaborativa sia di Pi. Vi. che di Pi. Gi. , divenuti collaboratori a distanza di un solo mese l’uno dall’altro (il primo nel gennaio e il secondo nel febbraio del 2004), con specifica disamina dell’obiezione difensiva, qui riproposta come oggetto di presunta omessa motivazione, circa pregresse ragioni di contrasto dei Pi. con gli imputati, puntualmente escluse nella sentenza impugnata, che riconosce, invece, piu’ generali tensioni organizzative dopo l’omicidio, nel 2002, di Ma. Fr. , co-reggente del sodalizio criminale insieme a Pi. Vi. , secondo quanto riferito dallo stesso collaboratore; la spontaneita’ delle propalazioni dei fratelli Pi. in merito all’omicidio e alla distruzione del cadavere di La. Lu. , dei quali si sono innanzitutto autoaccusati prima ancora di chiamare in correita’ e in reita’ gli attuali imputati, benche’ non esistesse a loro carico alcun elemento idoneo ad indiziarli dei predetti delitti.
Quanto alla valutazione di attendibilita’ intrinseca oggettiva, anch’essa risulta accuratamente svolta nella sentenza impugnata, che, con adeguata motivazione, ha dato conto della coerenza, costanza e precisione delle narrazioni dei fratelli Pi. relative all’omicidio e alla distruzione del cadavere di La. Lu. , di cui gli stessi chiamanti sono stati diretti coautori.

Giova, al riguardo, richiamare quanto correttamente osservato dalla Corte territoriale a proposito della coerenza interna delle dichiarazioni dei collaboranti e, in particolare, a confutazione della denunciata inverosimiglianza della convocazione del La. nel casolare dove sarebbe stato ucciso, senza alcuna predisposizione di armi da parte degli assassini, i quali si sarebbero irragionevolmente affidati, secondo il racconto di Pi. Vi. censurato dai ricorrenti, agli eventuali attrezzi rinvenibili sul posto senza preventivamente accertarne la presenza e l’idoneita’ allo scopo, pur fermamente perseguito, di sopprimere l’infido sodale.

La credibilita’ dei comportamenti umani che storicamente si attuano non si misura, infatti, su astratti criteri di scienza e prudenza ovvero di ragionevolezza e buon senso, poiche’ le azioni umane, ancorche’ criminali, non sono da essi necessariamente condizionate ma dipendono dall’iniziativa e dalle scelte dei loro autori espresse nelle variabili e molteplici modalita’ che si danno nei singoli casi concreti, insofferenti rispetto ad alcuna catalogazione di massima, salve le ipotesi estreme, non ricorrenti nel caso in esame, di manifesta abnormita’ delle modalita’ riferite o di radicale inadeguatezza nel rapporto tra mezzi e fini, idonee ad escludere la stessa possibilita’ di accadimento dell’evento perseguito.


Anche le censure difensive circa la non vetrificata genuinita’ delle dichiarazioni dei fratelli Pi. , i quali non iniziarono contemporaneamente le rispettive collaborazioni con la giustizia e avrebbero potuto preventivamente comunicare tra loro, donde l’ingiusto rifiuto dei giudici di merito di acquisire i pur richiesti tabulati delle utenze telefoniche dei collaboratori, non sono fondate, considerato che la Corte territoriale ha vagliato gli apporti dichiarativi dei chiamanti, sottolineando che ciascuno di essi ha riferito sulla specifica fase della vicenda delittuosa di sua diretta conoscenza, includente, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore dei ricorrenti, Ca. e In. , anche il trasporto del cadavere dal luogo di iniziale deposizione a quello di successiva distruzione, cui partecipo’ materialmente Pi. Gi. .
Adeguatamente motivato risulta, altresi’, il rifiuto di acquisire i richiesti tabulati telefonici, ritenuti irrilevanti dalla Corte di merito, stante l’impossibilita’ di conoscere i contenuti di eventuali comunicazioni tra i fratelli Pi. nella fase iniziale delle rispettive collaborazioni, al fine di escludere la credibilita’ delle loro propalazioni, comunque sottoposte all’attento vaglio di affidabilita’, di cui sopra, con motivato esito positivo non ribaltabile in questa sede.

Le pretese contraddizioni, infine, tra le versioni dei collaboratori che la Corte territoriale avrebbe ignorato o non adeguatamente valutato, risultano invece considerate nella sentenza impugnata che ne evidenzia, con motivazione ancora una volta adeguata e coerente, il carattere marginale e non essenziale ai fini della ricostruzione dei fatti, essendo attinenti all’esatta posizione della lima infilata nell’occhio o nella narice della vittima, la cui presenza e’ comunque riferita da entrambi i dichiaranti, e alla collocazione temporale dei fatti solo inizialmente riferita da Pi. Vi. alla primavera anziche’ all’inverno del (OMESSO), per un errore mnemonico dovuto, come plausibilmente motiva la sentenza impugnata, al non breve tempo trascorso tra la scomparsa nel nulla del La. , nel (OMESSO), e la rivelazione del suo omicidio da parte dei fratelli Pi. , nei primi mesi del (OMESSO).


14.2. Passando ai vizi motivazionali in tema di riscontri alle chiamate in correita’, denunciati dai difensori degli imputati Fu. , Ca. e In. , e’ opportuno preliminarmente raggrupparli, per chiarezza espositiva e in sintonia con la consolidata giurisprudenza di questa Corte (c.f.r., tra tutte, Sez. 2, n. 13473 del 04/03/2008, dep. 31/03/2008, Lucchese, Rv. 239744), in due categorie, l’una attinente ai riscontri oggettivi idonei ad integrare la prova generica dei fatti, e l’altra relativa ai riscontri soggettivi o individualizzanti idonei ad integrare la prova specifica ovvero la attribuibilita’ di essi agli attuali ricorrenti.


Sul piano oggettivo e riepilogando le comuni doglianze al riguardo, la Corte non avrebbe dato adeguata ragione dei seguenti elementi: a) assenza di un fondamentale riscontro delle dichiarazioni dei chiamanti per essere stata esclusa, dalla perizia disposta in sede di rinnovazione del dibattimento in appello, la compatibilita’ genetica tra il DNA mitocondriale estratto dai frammenti ossei repertati sul luogo della presunta combustione del cadavere del La. e quello prelevato dalle germane dello scomparso; b) inidoneita’ funzionale della catena di cinquanta centimetri rinvenuta nel casolare, presunto teatro del riferito omicidio, allo strangolamento del La. , il quale era alto un metro e ottanta centimetri e non pesava meno di 100 chilogrammi, tenuto conto delle modalita’ di avvolgimento intorno al collo della vittima, riferite da Pi. Vi. ; c) inverosimiglianza del luogo della riferita combustione del cadavere, distante 6 chilometri dal casolare, teatro del delitto, considerate le modalita’ di trasporto riferite da Pi. Gi. con uso di una carriola faticosamente spinta a mano dallo stesso collaboratore e dal Fu. , quest’ultimo gia’ allora affetto da cardiopatia e sindrome depressiva, affezioni di cui la Corte non avrebbe tenuto alcun conto; d) incongruenza tra il riferito ritrovamento delle chiavi appartenenti alla vittima sul luogo del preteso rogo del cadavere e la denuncia di loro smarrimento sporta dalla moglie del La. solo dopo il ritrovamento a cura dei Carabinieri, ovvero cinque anni dopo il presunto delitto; e) mancanza di tracce organiche sulle chiavi, la lima e gli altri oggetti rinvenuti sul luogo del presunto rogo del cadavere.

Osserva la Corte che tutti i predetti elementi, contrariamente alle denunce difensive, sono stati invece valutati dalla Corte territoriale con motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, che, come gia’ sopra indicato, ha sottolineato: a) la neutralita’ degli esiti della perizia genetica, chiariti dallo stesso perito in dibattimento, tali da non consentire di affermare ma neppure di negare la compatibilita oggetto del quesito, a causa della elevata vulnerabilita’ dell’unico tipo di DNA mitocondriale, anziche’ nucleare, che era stato possibile prelevare da uno dei frammenti ossei rinvenuti, valorizzando la significativita’ dell’accertata appartenenza a persona umana dei medesimi reperti, che, unitamente agli altri elementi storicamente acclarati, quali la scomparsa del La. dal (OMESSO) senza piu’ dare notizia di se’ e la tempestiva denuncia di assenza da parte della moglie, costituitasi parte civile insieme alla figlia nel presente processo, avvalorano il fatto che il La. sia stato ucciso; b) la compatibilita’ della catena rinvenuta, seppure lunga solo cinquanta centimetri, con le modalita’ del delitto, come precisate da Pi. Vi. in dibattimento, non consistite nell’avvolgimento della catena intorno al collo del robusto La. , bensi’ nella pressione di essa sul collo tirata da un capo e dall’altro dai numerosi autori materiali del delitto, ben cinque, avvicendatisi tra di loro; c) la diversita’ tra la distanza stradale (6 chilometri e 822 metri) e quella a piedi (poco piu’ di un centinaio di metri) tra il luogo nei pressi del casolare di campagna, teatro del delitto, in cui fu inizialmente deposto il cadavere, e il posto di campagna incolta in cui fu bruciata la salma del La. , dopo essere stata ivi trasportata seguendo a piedi il percorso interno; d) la significativita’ del ritrovamento delle chiavi di pertinenza della vittima nei pressi del luogo dell’indicato rogo, non incompatibile col tempo trascorso (oltre cinque anni dopo il delitto) e le intemperie nel frattempo abbattutesi in loco, ne’ posta in dubbio dalla denuncia di smarrimento della vedova del La. , postuma al loro ritrovamento e funzionale ad ottenerne la restituzione; e) la giustificata assenza di tracce biologiche sulla catena indicata come strumento del delitto e sugli altri oggetti rinvenuti nel sito della riferita combustione del cadavere, sulla base di fattori ambientali e temporali di degrado, qualificatamente valutati dai consulenti tecnici e dal perito nominato in sede di rinnovazione del dibattimento in appello.

Va aggiunto che la sentenza impugnata non trascura neppure di esaminare la causale alternativa prospettata dai difensori, con riguardo alla possibile latitanza del La. , ma, come gia’ sopra ricordato, motivatamente la esclude poiche’ solo congetturale e sfornita di alcun supporto nelle risultanze processuali.


14.3. Nell’esame dei riscontri cosiddetti individualizzanti, idonei cioe’ a confermare le propalazioni dei chiamanti circa la partecipazione al delitto di omicidio, di cui al capo 1A), insieme a Pi. Vi. , degli imputati, Fu. , Ca. e In. , e al delitto di distruzione del cadavere, di cui al capo 1B), insieme a Pi. Gi. , dell’imputato Fu. , la Corte di merito, contrariamente alle censure difensive, ha rettamente applicato la regola di giudizio di cui all’articolo 192 c.p.p., comma 3, valorizzando i seguenti dati: a) i fratelli Pi. sono chiamanti in correita’ per i delitti di omicidio ( Pi. Vi. ) e di distruzione del cadavere ( Pi. Gi. ), avendo ad essi personalmente partecipato, donde la diretta conoscenza dei fatti riferiti, che connota di pregnante affidabilita’ le loro dichiarazioni anche con riguardo agli altri indicati autori dei medesimi fatti; b) i fratelli Pi. sono contemporaneamente chiamanti in reita’, ciascuno con riguardo al delitto commesso dall’altro, con reciproco riscontro delle rispettive dichiarazioni sui concorrenti nei reati di cui sono stati autori diretti, come emerge dalle loro autonome narrazioni che non si sovrappongono ma si integrano e rafforzano a vicenda, nell’ambito della stretta correlazione esistente tra le due fasi del complesso fatto delittuoso: quella dell’ideazione-esecuzione dell’omicidio e quella, immediatamente successiva, della distruzione del cadavere in un contesto operativo e strategico unitario che rende pienamente plausibile, secondo la corretta motivazione dei giudici di merito, la comunanza e lo scambio del patrimonio conoscitivo tra gli autori dell’uno e dell’altro reato, con la convergente costante indicazione di tutti i partecipanti all’operazione delittuosa nelle sue varie fasi.

In proposito, va precisato che la confessione stragiudiziale dell’imputato Fu. a Pi. Gi. con riguardo a se stesso e agli altri autori dell’omicidio del La. , indicati dal primo al secondo nelle stesse persone riferite da Pi. Vi. , contrariamente alla doglianza difensiva, non e’ stata apprezzata, in sentenza, come elemento di riscontro alle dichiarazioni eteroaccusatorie di Pi. Gi. e, pertanto, non risulta alcuna violazione della regola probatoria posta dall’articolo 192 c.p.p., comma 3.


La confessione stragiudiziale dell’imputato o coimputato segue, invero, il valore probatorio del mezzo di prova, documentale od orale, cui inerisce, dovendosi distinguere, in quest’ultimo caso, tra la confessione stragiudiziale riferita da un testimone nel processo, soggetta alla valutazione di attendibilita’ propria della prova testimoniale ai sensi dell’articolo 192 c.p.p., comma 1, e la confessione stragiudiziale riportata nella chiamata in reita’ o correita’, soggetta, come tutte le dichiarazioni del coimputato del medesimo reato o dell’imputato in procedimento connesso o collegato, alla verifica esterna imposta dall’articolo 192 c.p.p., comma 3, (si veda, con riguardo al valore di fonte del libero convincimento del giudice, pur non costituendo prova assoluta di colpevolezza, della confessione stragiudiziale dell’imputato che costituisca il contenuto di una deposizione testimoniale: Sez. 5, n. 38252 del 15/07/2008, dep. 07/10/2008, Auriemma, Rv. 241572).

Sono, dunque, infondate le censure difensive anche con riguardo alla rilevata carenza dei riscontri individualizzanti alle dichiarazioni rese dai fratelli Pi. , risultando la motivazione della sentenza, sul punto, conforme alla regola di giudizio di cui all’articolo 192 c.p.p., comma 3, e alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, in tema di valutazione della chiamata in reita’, i necessari riscontri individualizzanti possono essere offerti anche da elementi di natura logica e da un’altra dichiarazione, sia pure de relato, purche’ sottoposta ad un pregnante vaglio critico e purche’ consenta di collegare l’imputato ai fatti a lui attribuiti dal chiamante in reita’, non necessariamente con specifico riferimento al frammento di fatto a cui quest’ultimo ha assistito (Sez. 1, n. 1560 del 21/11/2006, dep. 19/01/2007, Missi, Rv. 235801).


14.4. Ulteriore specifica censura con riguardo alla posizione del Fu. , per non avere la Corte di merito valutato le sue condizioni di salute incompatibili, secondo il ricorrente, col pregnante ruolo a lui attribuito dai fratelli Pi. sia nella fase della commissione dell’omicidio sia in quella del trasporto e combustione del cadavere, e’ parimenti infondata, avendo il giudice d’appello esaminato la predetta doglianza e correttamente motivato sulla non emersa impossibilita’ dell’imputato di porre in essere, al tempo dei fatti, le condotte a lui riferite. La pur lamentata, da parte del difensore del Fu. , pretermissione dell’esame testimoniale dei proprietari dei terreni, teatro dei fatti, e’, poi, inammissibile non avendone il ricorrente neppure allegato la rilevanza ai fini della decisione.


14.5. Con riguardo alla specifica posizione di In. Fr. e alla denuncia di omessa valutazione, in sentenza, della testimonianza del fratello della vittima, La. Ga. , da cui sarebbe emerso il disinteresse di quest’ultimo a prendere possesso della parte di terreno gia’ di pertinenza del congiunto scomparso, donde il subentrare dell’ In. , che gia’ se ne occupava insieme alla vittima, nella coltivazione dell’intero fondo e la conseguente irrilevanza della circostanza per sostenere la consapevolezza della morte del La. , gia’ nell’immediatezza della sua scomparsa, da parte dello stesso imputato, osserva la Corte l’infondatezza dell’omissione denunciata, perche’ non attinente ad elemento decisivo nella struttura dell’impianto motivazionale a sostegno della dichiarata responsabilita’ dell’ In. , quale concorrente nell’omicidio di La. Lu. , che trova fondamento, come si e’ detto, nelle convergenti chiamate in correita’ e reita’, rispettivamente, di Pi. Vi. e Pi. Gi. , sottoposte a puntuale e rigoroso vaglio di attendibilita’ intrinseca ed estrinseca da parte della Corte territoriale.


14.6. Le ulteriori censure alla motivazione della sentenza, in tema di dichiarata responsabilita’ degli imputati per l’omicidio e la distruzione del cadavere di La. Lu. , devono ritenersi inammissibili per manifesta infondatezza, poiche’ la decisione impugnata e quella, conforme, emessa all’esito del giudizio di primo grado offrono un’ampia e completa motivazione, immune da vizi logici e giuridici, e, pertanto, danno piena e coerente ragione del formulato giudizio di condanna.

ù15.1. Inammissibile e’ il vizio di motivazione, dedotto solo dall’avvocato Antonio Manago’ nell’interesse degli imputati Ca. e In. , con riguardo alla riconosciuta aggravante di cui al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 convertito in Legge n. 203 del 1991, di cui va affermata la compatibilita’ con il contestato delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’articolo 577 c.p.p., comma 1, punito con l’ergastolo, seppure al solo fine della corretta contestazione del fatto e non anche dell’aggravamento della pena edittale.


Il motivo in esame si limita, infatti, alla generica enunciazione dei contenuti della medesima aggravante e all’apodittica affermazione che essi non sarebbero ravvisatali nell’omicidio ascritto al Ca. e all’ In. , senza formulare alcuna specifica censura all’apparato argomentativo della sentenza, che inquadra, invece, il fatto criminoso nell’attivita’ dell’associazione mafiosa, denominata clan Nardo, in funzione del rafforzamento del suo prestigio all’interno e all’esterno del medesimo sodalizio, con l’eliminazione degli affiliati inosservanti delle regole associative, quale fu ritenuto il La. .


15.2. Inammissibile e’ la censura relativa alla mancanza di motivazione con riguardo alla riconosciuta aggravante di cui all’articolo 62 c.p., n. 4, avanzata dal solo avvocato Antonio Manago’, nell’interesse degli imputati Ca. e In. , trattandosi di motivo del tutto generico che si limita all’enunciazione di una massima di questa Corte con riguardo al contenuto della medesima aggravante, senza muovere alcuna specifica critica alla puntuale ricostruzione della sentenza d’appello, sul punto, la quale evidenzia che le specifiche modalita’ della condotta criminosa, consistite nel conficcare una lima nella narice della vittima, nell’incertezza che fosse sopravvissuta dopo la prolungata azione di strangolamento cui era stata sottoposta, costituiscono quel quid pluris rispetto agli ordinari mezzi di attuazione del reato che integrano la circostanza aggravante in esame, esulando la predetta cruenta manovra dal normale processo di causazione dell’evento e rivelando l’indole particolarmente malvagia dei sicari (c.f.r., tra le molte conformi sulla circostanza in esame, Sez. 1, n. 25276 del 27/05/2008, dep. 20/06/2008, Potenza, Rv. 240908).


15.4. Inammissibile per genericita’ e’ il denunciato difetto di motivazione, anch’esso formulato dal solo avvocato Antonio Manago’, nell’interesse degli imputati Ca. e In. , con riguardo alla riconosciuta aggravante della premeditazione, di cui all’articolo 577 c.p., comma 1, n. 3.

Il ricorrente si limita alla trascrizione di una massima giurisprudenziale in tema di premeditazione, apoditticamente asserendo che la sentenza impugnata non avrebbe dato ragione delle componenti, ideologica e cronologica, che caratterizzano la detta aggravante. A
l contrario la Corte territoriale, con adeguata e coerente motivazione, desume gli elementi indicatori della premeditazione, sia dalla maturata causale del delitto per indisciplina della vittima all’interno dell’associazione mafiosa di comune appartenenza; sia dalla preordinazione delle circostanze di tempo e di luogo in cui attuare efficacemente il proposito criminoso: l’una e l’altra sintomatiche dell’elaborazione del grave delitto in apprezzabile lasso di tempo prima della sua esecuzione.


16. Parimenti inammissibili devono ritenersi le censure mosse sia dal difensore del Fu. che dal difensore dell’ In. e del Ca. , nei rispettivi ricorsi, con riguardo all’omessa motivazione in tema di diniego delle circostanze attenuanti generiche e di determinazione dell’entita’ della pena inflitta.


Si tratta di doglianze del tutto generiche a fronte della specifica motivazione che si legge nella sentenza impugnata in tema di trattamento sanzionatorio, laddove si escludono valide ragioni per l’attenuazione della pena dell’ergastolo, gia’ irrogata a ciascuno degli imputati nella sentenza di primo grado, sulla base dei seguenti elementi: estrema gravita’ del fatto, cosi’ come formalmente circostanziato, evidenziata dalle sue efferate modalita’ esecutive e dalla causale dell’omicidio in funzione del mantenimento del prestigio dell’associazione mafiosa di comune appartenenza; negativa valutazione della personalita’ degli imputati per il rilevante contributo dato da ciascuno, secondo il piano concordato e puntualmente eseguito, per la buona riuscita del progetto omicida; allarmanti precedenti annoverati sia dal Fu. per porto illegale di armi e plurime sottoposizioni alla misura della sorveglianza speciale, sia dall’ In. siccome gia’ destinatario della misura della sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno, sia dal Ca. precedentemente condannato per detenzione illegale e ricettazione di armi clandestine.


Si richiama, in proposito, il principio gia’ affermato da questa Corte, secondo il quale la concessione o meno delle attenuanti generiche e’ un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalita’ del giudice, sottratto al controllo di legittimita’, e puo’ ben essere motivato implicitamente attraverso l’esame esplicito di tutti i criteri di cui all’articolo 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, dep. 22/09/2003, Dell’Anna, Rv. 227142), come puntualmente avvenuto nel caso in esame.

17.1. Passando al ricorso proposto dall’avvocato Angelo D’Amico nell’interesse di Ra. Ra. , il primo motivo attinente alla responsabilita’ dell’imputato per il delitto di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico delle sostanze stupefacenti, che sarebbe stata affermata in violazione della legge penale e senza un’adeguata motivazione, e’ infondato, poiche’ la sentenza impugnata, confermando quella di primo grado, ha dato ampia e coerente ragione del giudizio espresso sulla base delle risultanze probatorie gia’ completamente enunciate nella sezione ricognitiva di questa decisione (c.f.r. le precedenti pp. 8-9) e, percio’, non ripetute in questa sede, con la precisazione che la dedotta breve durata della partecipazione del Ra. al sodalizio, temporalmente delimitata, in contestazione, tra la fine del (OMESSO) e l’inizio del (OMESSO), non e’ di ostacolo alla configurabilita’ del reato a suo carico, come da giurisprudenza di questa Corte, a termini della quale solo un contributo meramente episodico esclude la partecipazione del suo autore all’associazione per delinquere preordinata alla cessione o al traffico di sostanze stupefacenti (c.f.r. Sez. 6, n. 9320 del 12/05/1995, dep. 05/09/1995, Mauriello, Rv. 202038).


Nel caso in esame, sulla base degli elementi puntualmente indicati nella sentenza impugnata e non specificamente contestati dal ricorrente (precedenti giudicati sull’esistenza dell’associazione finalizzata al narcotraffico, quale articolazione di quella mafiosa, e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, indicanti nel Ra. un uomo di fiducia della cosca nella gestione del traffico della droga), va escluso il vizio di motivazione e la violazione di legge come sopra denunciati con motivo al limite della genericita’.
17.2. La seconda censura proposta dall’avvocato Angelo D’Amico, nell’interesse del Ra. , per violazione di legge e omessa motivazione in punto a mancato riconoscimento all’imputato della circostanza attenuante di cui all’articolo 114 c.p., comma 1, negata applicazione delle circostanze attenuanti generiche ed eccessiva entita’ della pena inflitta, e’ inammissibile per manifesta infondatezza.


Come correttamente indicato nella sentenza impugnata, in tema di concorso di persone nel delitto di partecipazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, l’attenuante della minima partecipazione al fatto pluripersonale, di cui al secondo comma dell’articolo 114 cod. pen., non si applica quando ricorre una delle circostanze aggravanti delineate nell’articolo112 c.p.p., e, dunque, quando il numero dei concorrenti sia pari o superiore a cinque, come nel delitto previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 74, contestato al Ra. (c.f.r., sulla preclusione dell’attenuante de qua in presenza della citata aggravante, con specifica estensione della medesima preclusione ai reati di estorsione e rapina aggravati, rispettivamente, ai sensi dell’articolo 629 c.p., comma 2 e articolo 628 c.p., comma 3, n. 1, ultimo periodo: Sez. 6, n. 6250 del 17/10/2002, dep. 07/02/2003, Emmanuello, Rv. 225925).


Incensurabile in sede di legittimita’ e’, poi, l’esercizio del potere discrezionale del giudice in tema di determinazione dell’entita’ della pena inflitta, alla stregua delle circostanze indicate nell’articolo 133 cod. pen., puntualmente considerate nella decisione impugnata, sia per l’inquadramento degli atti di traffico illegale di sostanze stupefacenti in ambito associativo e mafioso (tanto da ritenersi sussistente, a carico del Ra. , l’aggravante ad effetto speciale di cui alla Legge n. 203 del 1991, articolo 7 che non ha formato oggetto di gravame in questa sede), sia per la vautazione negativa della personalita’ dell’imputato sulla base non solo dei fatti oggetto del presente giudizio, ma anche dei plurimi e gravi precedenti penali per rapina, detenzione illegale di armi e sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno, donde la ritenuta esplicita esclusione di valide ragioni per concedere le invocate attenuanti generiche e per ulteriori diminuzioni della pena rispetto a quella di anni quattordici di reclusione, inflitta nella prima sentenza e confermata in appello.
18.1. Il ricorso proposto dall’avvocato Angelo D’Amico nell’interesse di Ri. Ma. e’ fondato con riguardo al primo dei motivi proposti, col quale si deduce l’omesso intervento dell’imputato nel giudizio di secondo grado.

Risulta, per tabulas, che il Ri. , destinatario di ordinanza di ripristino della custodia cautelare in carcere emessa, nell’ambito di questo stesso processo, dalla Corte di assise di appello di Catania il 28 aprile 2008 e notificata all’imputato (costituitosi in carcere il 2 maggio 2008 per altra causa) il successivo 6 maggio, e’ stato giudicato come “libero presente” dalla Corte territoriale fino alla sentenza qui impugnata, senza che sia mai stata disposta la sua traduzione per consentirgli la partecipazione al processo d’appello, pur in assenza di alcuna rinuncia dell’imputato ad intervenire nel medesimo giudizio (sulla detenzione sopravvenuta quale causa di legittimo impedimento dell’imputato a comparire, senza alcun onere di tempestiva comunicazione a suo carico, si veda: Sez. 6, n. 44421 del 13/11/2008, dep. 28/11/2008, Apice, Rv. 241605, conforme a Sez. U. n. 37483 del 2006, Rv. 234600).

Ne discende l’evidente violazione della disposizione di cui all’articolo 178 c.p.p., comma 1, lettera c), che integra la nullita’ di ordine generale prevista dal successivo articolo 180 c.p.p., per omesso intervento dell’imputato nel processo d’appello, tempestivamente denunciata in questa sede, con il conseguente annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla posizione del Ri. e il rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Catania.


18.2. Gli ulteriori tre motivi del ricorso, proposti nell’interesse dello stesso imputato, restano assorbiti dall’accoglimento di quello finora esaminato.
19.1. Il ricorso presentato dall’avvocato Antonio Manago’ nell’interesse dell’imputato, Sc. Al. , si articola, come si e’ detto, in quattro motivi.

Il primo denuncia l’inosservanza dell’articolo268 c.p.p., comma 3, poiche’ le comunicazioni intercettate, utilizzate a sostegno della dichiarata responsabilita’ dell’imputato quale concorrente nel delitto di tentata estorsione aggravata e di danneggiamento seguito da incendio (capi 4A) e 4B)), sarebbero state eseguite con impiego di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria senza la necessaria motivazione in punto a insufficienza o inidoneita’ degli impianti installati nella Procura della Repubblica.

A sostegno della censura di inutilizzabilita’ dei risultati delle attivita’ captative il ricorrente adduce diffusi richiami alla giurisprudenza di questa Corte, a sezioni unite, dalla sentenza n. 919 del 2004 (ricorrente G. ) alla sentenza n. 30347 del 2007 (ricorrente A. ) fino alla piu’ recente sentenza n. 36359 del 2008(ricorrente C. ).

Aggiunge il richiamo alla sentenza di questa Corte, sez. 2, n. 4552 del 16/12/2004 (depositata C8/02/2005), di accoglimento del ricorso proposto dal medesimo Sc. , per rilevata inosservanza dell’articolo 268 c.p.p., comma 3, con annullamento dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Catania in data 24 maggio 2004 che aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere, emessa, nell’ambito di questo stesso processo, a carico del ricorrente.

Si legge, in quest’ultima sentenza, che entrambi i decreti autorizzativi, emessi dal Pubblico ministero ai sensi dell’articolo 267 c.p.p., comma 2, in data 19 giugno 2002 e 3 giugno 2002, con riguardo, rispettivamente, alle intercettazioni sulle utenze (OMESSO), l’uno e l’altro tempestivamente convalidati dal Giudice per le indagini preliminari, sono privi di alcun riferimento alla insufficienza o inidoneita’ degli impianti in uso presso la Procura della Repubblica, essendo motivati con esclusiva menzione delle eccezionali ragioni di urgenza, connesse alla necessita’ di acquisire immediatamente elementi probatori in merito alla “localizzazione e cattura” di tale Ga. Vi. , con l’ulteriore annotazione che le intercettazioni sono urgenti al fine di consentire il “coordinamento, in tempo reale, tra l’attivita’ di ascolto e l’attivita’ dinamica sul territorio” (c.f.r. la motivazione della sentenza di questa Corte n. 4552 del 2005, che risulta quasi interamente trascritta nel motivo di ricorso in esame).

Alla disamina della specifica doglianza de qua,va premesso che la pretesa inutilizzabilita’ dei risultati delle intercettazioni telefoniche, essendo un problema attinente all’utilizzabilita’ delle prove, va posto nel dibattimento ed ogni valutazione compiuta in proposito in sede di procedimento cautelare – anche se con il vaglio della Corte di cassazione (nella specie intervenuto con la citata sentenza n. 4552 del 2005) – non puo’ vincolare il giudice del dibattimento (Sez. 6, n. 5501 del 12/12/1995, dep. 04/06/1996, Falsone, Rv. 205649; Sez. 1, n. 1495 del 11/02/1998, dep. 04/05/1998, Seseri, Rv. 210551; Sez. 5, n. 16285 del 16/03/2010, dep. 26/04/2010, Baldissin, Rv. 247265).

Nel caso in esame i Giudici di merito, investiti sia in primo sia in secondo grado del rilievo difensivo di inutilizzabilita’ dei risultati delle predette intercettazioni telefoniche, hanno respinto l’eccezione, osservando che la motivazione dei decreti emessi dal Pubblico ministero rendeva adeguata ragione, oltre che del requisito dell’urgenza espressamente richiamato, anche dell’inidoneita’ funzionale degli impianti installati nella sede della Procura della Repubblica rispetto alle concrete esigenze investigative.


Rileva la Corte che la decisione dei Giudici territoriali e’ corretta con l’integrazione motivazionale di cui si dira’.

Proprio le sentenze di questa Corte, a sezioni unite, richiamate dal ricorrente, hanno puntualizzato che “il requisito della inidoneita’ o insufficienza degli impianti installati presso la Procura della Repubblica – e, quindi, il ricorso legittimo ad impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria – deve essere valutato anche in riferimento alla relazione intercorrente tra le caratteristiche delle operazioni di intercettazione nel caso concreto e le finalita’ perseguite attraverso tale mezzo di ricerca della prova, quindi non in astratto, ma con riguardo alle concrete ed obiettive caratteristiche dell’indagine nel cui contesto si inseriscono le operazioni di intercettazione, in relazione alla necessita’ di acquisire, con sollecitudine, eventuali elementi utili alle indagini, di effettuare un pronto intervento nel corso delle indagini medesime, di non creare ritardi nell’azione investigativa” (Sez. U., n. 919 del 26/11/2003, dep. 19/01/2004, G. , richiamata da Sez. U., n. 30347 del 12/07/2007, dep. 26/07/2007, A. ).

Non pertinente, invece, al caso in esame e’ il pur richiamato arresto giurisprudenziale in materia di “remotizzazione” dell’ascolto in tema di intercettazioni telefoniche.

Solo nel recente passato l’evoluzione tecnologica ha consentito la fisica separazione dell’ascolto dalla registrazione delle intercettazioni, comportando la distinzione tra l’attivita’ di registrazione – che, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, consiste nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata – e le ulteriori attivita’ di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati cosi’ registrati, con la precisazione che condizione necessaria per l’utilizzabilita’ delle intercettazioni e’ l’impiego degli impianti esistenti nei locali della Procura della Repubblica per la sola attivita’ di registrazione, mentre l’ascolto e le ulteriori attivita’ possono essere eseguite “in remoto” presso gli uffici di polizia giudiziaria, senza pregiudizio delle garanzie della difesa, alla quale e’ sempre consentito l’accesso alle registrazioni originali (Sez. U., n. 36359 del 26/06/2008, dep. 23/09/2008, Carli, Rv. 240395).

Nei decreti censurati, risalenti al giugno 2002 allorche’ la remotizzazione dell’ascolto non era ancora possibile, si fa esplicito riferimento, come indicato dallo stesso ricorrente, alla necessita’ di “localizzazione e cattura di Ga. Vi. “, cio’ che consente di ritenere inequivocabilmente compresa, nell’eccezionale urgenza di porre fine alla latitanza del predetto, l’inidoneita’ degli apparati disponibili presso l’ufficio del Pubblico ministero e la funzionalita’, invece, di quelli situati presso il comando territoriale dei Carabinieri, piu’ prossimo ai luoghi di presumibile presenza del ricercato, a consentire “il coordinamento, in tempo reale, tra l’attivita’ di ascolto e l’attivita’ dinamica sul territorio”, secondo le testuali parole che pure si leggono nei medesimi decreti.

La mancata indicazione, nella sentenza impugnata, della specifica finalita’ delle censurate intercettazioni disposte per la ricerca di un latitante, alle quali si applicano, “ove possibile”, le disposizioni degli articoli da 268 a 270 cod. proc. pen., come previsto dal successivo articolo 295 c.p.p., comma 3, (c.f.r. Sez. 1, n. 5471 del 15/12/2005, dep. 13/02/2006, Calabro’, Rv. 235097), e’ suscettibile di integrazione argomentativa da parte di questa Corte di cassazione, trattandosi di lacuna motivazionale che non ha alcuna influenza sul “decisum”, ai sensi dell’articolo 619 cod. proc. pen., comma 1 (Sez. 6, n. 2387 del 26/01/2000 dep. 25/02/2000, Manconi, Rv. 215644).

Segue la conferma della legittimita’ delle intercettazioni telefoniche in esame, rafforzata dall’argomentazione integrativa che precede, e, pertanto, l’infondatezza del primo motivo del ricorso proposto nell’interesse dello Sc. , che deve essere rigettato.

19.2.
Il secondo motivo con il quale si deduce il vizio di motivazione in relazione agli articoli 56 e 110 c.p. e articolo 629 c.p., comma 1, censurando la dichiarata responsabilita’ dell’imputato a titolo di concorso nei delitti di cui ai capi 4A) e 4B) della rubrica, e’ inammissibile perche’ sollecita una rivisitazione in fatto delle adeguate argomentazioni, immuni da vizi logici e giuridici, sostenute nella sentenza impugnata, con riguardo ai seguenti punti:

a) chiamata in reita’, de relato, dello Sc. da parte di Pi. Vi. , le cui dichiarazioni, contrariamente a quanto rappresentato dal ricorrente, non costituiscono il principale elemento di prova da integrare con i riscontri, bensi’ esse stesse riscontrano la prova diretta del fatto, indicata nei contenuti delle conversazioni telefoniche captate nella notte tra il (OMESSO), in cui fu appiccato il fuoco ad alcuni automezzi parcheggiati sul piazzale dell’impresa ” Co. “;

b) dedotta illogicita’ della continuazione dell’azione criminosa, malgrado il controllo del Ra. da parte dei Carabinieri in stretta contiguita’ spaziale e temporale rispetto al contestato danneggiamento seguito da incendio, illogicita’ superata dalla considerazione che il danneggiamento comunque avvenne;

c) omessa acquisizione del rapporto dei vigili del fuoco sull’occorso, dal quale soltanto avrebbe potuto essere desunta la natura dolosa o meno dell’incendio: sul punto i giudici di merito ragionevolmente sottolineano la superfluita’ del documento, poiche’ l’estensione, le modalita’ e i tempi di sviluppo dell’incendio, interessanti una vasta area e, contemporaneamente, tre zone distinte, non lasciavano spazio ad ipotesi di accidentalita’ del fatto;

d) mancato reperimento di taniche di benzina e di ricetrasmittenti per mantenere i contatti a bordo dell’autovettura del Ra. : quest’ultimo, proprio perche’ originariamente designato come staffettista, non aveva alcuna ragione di detenere il liquido infiammabile e, per svolgere il suo compito, gli era necessario e sufficiente il telefono cellulare effettivamente usato nell’occasione, secondo l’ineccepibile motivazione decisoria;

e) assenza di prova di alcun collegamento tra gli autori delle telefonate minatorie e coloro che appiccarono il fuoco ai veicoli e ai beni dell’azienda Co. : ai contrario, come congruamente motivato in sentenza, sussiste una stretta concatenazione logico-temporale tra le prime, risalenti al (OMESSO), e la culminante azione di danneggiamento, commessa nel (OMESSO);

f) arbitrarieta’ della traduzione-interpretazione dei contenuti delle conversazioni captate, sostenuta dal ricorrente solo con diffusi richiami giurisprudenziali sul tema, senza alcuna specifica critica della puntuale ricostruzione che si legge nella sentenza di primo grado (pp. 237-240), espressamente richiamata da quella di appello (pag. 54), circa i contenuti delle medesime conversazioni e, per quanto qui interessa, di quelle con individuato interlocutore nello Sc. a partire dalle ore 0,11 del (OMESSO), dalle quali emerge il subingresso dello stesso imputato, dopo il controllo del Ra. da parte dei Carabinieri, nel ruolo di staffettista e di addetto al recupero degli esecutori materiali del danneggiamento per riportarli a casa dopo l’azione criminosa.

19.3. Totalmente generico, affidato a sole due righe che rinviano al motivo precedente in tema di vizio di motivazione con riguardo all’affermazione di responsabilita’, e, percio’, inammissibile, e’ il terzo motivo proposto nell’interesse dello Sc. che contesta il riconoscimento della circostanza aggravante di cui al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7, convertito nella Legge n. 203 del 1991.

19.4. Parimenti inammissibile per assoluta genericita’ e’, infine, la doglianza relativa alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, risultando il diniego motivato dai giudici di merito, come pure la censura di malgoverno dei criteri dettati dall’articolo 133 cod. pen., oggetto di puntuale considerazione da parte della Corte territoriale, non sindacabile in questa sede (v. pp. 80-81 della sentenza impugnata).

20.1. Il ricorso proposto dall’avvocato Angelo D’Amico nell’interesse di Br. Ci. si articola, come si e’ detto, in tre motivi.

Il primo denuncia il vizio di motivazione con riguardo alla riconosciuta responsabilita’ dell’imputato per il delitto di tentata estorsione aggravata in danno dei fratelli P. A. e P. F. , titolari dell’omonima autocarrozzeria, limitatamente all’episodio commesso nell'(OMESSO), allorche’ il Br. , dopo qualche giorno dall’Incendio di un autofurgone appartenente ai P. , si presento’ a P. A. , offrendo i suoi uffici per “sistemare le cose”.


Le censure mosse alla ricostruzione dai giudici di merito (c.f.r. pp. 206-217 della sentenza di primo grado e pp. 73-78 della sentenza di secondo grado), i quali hanno fondato l’affermazione della penale responsabilita’ dell’imputato sulle dichiarazioni della persona offesa, P. A. , e del chiamante in reita’, Pi. Vi. , sono infondate, limitandosi a riproporre le medesime obiezioni gia’ sollevate in sede di appello e puntualmente esaminate dal giudice di secondo grado con motivazione adeguata e coerente.

Il preesistente rapporto di conoscenza tra il Br. e i P. , ai quali il primo si era rivolto per piccole riparazioni alla sua autovettura; l’unicita’ della visita dell’imputato all’imprenditore, dopo il danneggiamento incendiario subito dai P. il (OMESSO); l’offerta di aiuto per sistemare le cose, rivolta, nell’occasione, dal Br. al P. , senza esplicite minacce o richieste di denaro, sono tutti elementi, riproposti in chiave censoria in questa sede, che, lungi dal smentire le dichiarazioni eteroaccusatorie di Pi. Vi. , sono stati adeguatamente valutati dalle Corti di merito come coerenti col ruolo attribuito dal collaboratore al Br. di emissario, non compromesso dall’aperta appartenenza alla cosca, incaricato di esercitare una suadente pressione sugli imprenditori per indurii a pagare, senza suscitare ulteriori allarmi dopo i numerosi danneggiamenti gia’ perpetrati, e, soprattutto, senza esporre gli uomini della cosca Nardo al rapporto diretto con le persone offese riluttanti a piegarsi all’intimidazione mafiosa.

La circostanza, poi, che le sole dichiarazioni accusatorie “de relato” del Pi. , informato dell’estorsione e del ruolo del Br. dal Ra. , non siano state ritenute sufficienti dai giudici di merito per affermare la penale responsabilita’ dei pur indicati concorrenti nel fatto estorsivo, rispondenti alle persone di R. M. e M. M. , e’ stata adeguatamente giustificata dalle Corti territoriali con il rilievo che, mentre la chiamata in reita’ del Br. risulta riscontrata dalla provata visita dell’imputato a P. A. subito dopo l’incendio di un veicolo dell’Imprenditore con “offerta di aiuto per sistemare le cose”, come da dichiarazioni della persona offesa e dello stesso imputato, la partecipazione del R. e del M. all’estorsione, benche’ riferita dal Pi. , e’ invece rimasta priva di riscontri estrinseci e, pertanto, in applicazione della regola di giudizio di cui all’articolo 192 c.p.p., comma 3, non ha acquisito il valore di piena prova.

Segue il rigetto del motivo finora esaminato.


20.2. Con il secondo motivo il difensore del Br. lamenta il vizio di motivazione con riguardo al riconoscimento della circostanza aggravante di cui al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7.

Il motivo e’ inammissibile, poiche’ si limita alla generica denuncia di inesistenza della prova che il ricorrente abbia agito al fine di agevolare la cosca mafiosa e che il suo comportamento abbia integrato gli estremi dell’aggravante ad effetto speciale, attesa la riconosciuta estraneita’ del Br. al sodalizio.

Nessuna censura specifica e’ mossa alla motivazione che, invece, nelle due conformi sentenze di merito, sorregge la positiva affermazione della circostanza aggravante, la quale ha la funzione di reprimere il metodo delinquenziale mafioso, ancorche’ utilizzato dal delinquente individuale, sul presupposto dell’esistenza in un determinato territorio di associazioni mafiose, e, coerentemente, e’ stata ritenuta applicabile anche a coloro – come il Br. – per i quali il reato di associazione mafiosa non risulta processualmente accertato, ma che tuttavia abbiano commesso gravi fatti delittuosi, avvalendosi del metodo mafioso, inteso come condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica su una o piu’ persone con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dalla pericolosa organizzazione deliquenziale di riferimento e dalla sua diffusa fama criminale sul territorio.
20.3. Il terzo motivo, attinente esclusivamente alla dosimetria della pena, e’ anch’esso inammissibile perche’ generico e astratto, contenendo mero richiamo degli articoli 132 e 133 cod. pen. e dell’articolo 27 Cost., a fronte della puntuale determinazione del trattamento sanzionatorio, nella sentenza impugnata, che tiene conto, nel caso concreto, dei parametri oggettivi e soggettivi di cui all’articolo 133 cod. pen. (gravita’ del fatto e valutazione negativa della personalita’ dell’imputato per i menzionati numerosi precedenti penali).


21. Il ricorso proposto dalle parti civili, C. M. e La. St. , rispettivamente moglie e figlia della vittima, La. Lu. , tramite il loro difensore munito di procura speciale, e’ fondato e deve essere accolto.


Risulta, invero, per tabulas, che esse avanzarono, per la prima volta nelle conclusioni finali davanti alla Corte di assise di appello, domanda di provvisionale nella misura di euro 500.000, mai prima richiesta ne’ esaminata dal Giudice di primo grado, sulla quale non e’ stata emessa alcuna decisione.


Siffatta domanda, pur proposta per la prima volta in appello dalla parte civile non impugnante, deve ritenersi legittima, inserendosi nell’azione civile validamente e tempestivamente esperita dalla stessa parte nel processo penale (conforme: Sez. 4, n. 2614 del 25/01/1988, dep. 26/02/1988, Palazzo, Rv. 177704, non contraddetta dalla giurisprudenza successiva).


La novita’ della domanda esclude, inoltre, la violazione del divieto di reformatio in peius, il quale postula che la richiesta di provvisionale sia stata gia’ proposta e respinta, sia pure parzialmente, dal giudice di primo grado, senza impugnazione della stessa parte civile, essendo appellante il solo imputato (c.f.r., tra le molte conformi, Sez. 1, n. 13545 del 04/02/2009, dep. 27/03/2009, Bestetti, Rv. 243132).
L’omessa pronuncia della Corte territoriale sulla domanda di provvisionale delle parti civili, proposta per la prima volta in appello, integrando il denunciato vizio di mancanza di motivazione con riguardo all’articolo 539 c.p.p., comma 2, impone, quindi, l’annullamento della sentenza impugnata, in parte qua, con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Catania per nuovo giudizio sul punto.



P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di R. M. nonche’ in ordine alla omessa pronuncia sulla richiesta di provvisionale avanzata dalle parti civili, C. M. e La. St. , e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Catania.

Rigetta i ricorsi di Br. Ci. , Ca. An. , Fu. Pa. Se. , In. Fr. , Ra. Ra. e Sc. Al. , e condanna gli stessi al pagamento delle spese processuali.

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