La remissione del debito ex art. 6 D.P.R. 115/02 riguarda esclusivamente le spese del processo penale e, pertanto, non può usifruirne il terzo interessato per le spese poste a suo carico nel procedimento di prevenzione.
(Cass. Sezione I Penale, 20 marzo – 24 aprile 2013, n. 18418)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIEFFI Severo – rel. Presidente –
Dott. ROMBOLA’ Marcello – Consigliere –
Dott. BONITO Francesco M.S. – Consigliere –
Dott. BARBARISI Maurizio – Consigliere –
Dott. BONI Monica – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:
OMISSIS;
avverso l’ordinanza n. 7069/2010 GIUD. SORVEGLIANZA di PALERMO, del 04/06/2012;
sentita la relazione fatta dal Presidente Dott. SEVERO CHIEFFI;
lette le conclusioni del PG Dott. MURA A. che ha chiesto l’annullamento con rinvio.
Svolgimento del processo
Con ordinanza in data 04/06/2012 il Magistrato di sorveglianza di Palermo ha dichiarato inammissibile l’istanza avanzata da OMISSIS diretta ad ottenere l’applicazione del beneficio della remissione del debito, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6, in relazione alle spese processuali poste a carico del predetto, intervenuto nella qualità di terzo interessato nel procedimento di prevenzione svoltosi nei confronti di OMISSIS.
Il Magistrato ha premesso in fatto: a) che con decreto del Tribunale di Palermo in data 17.7.1996 era stata applicata al OMISSIS la misura di prevenzione personale e quella patrimoniale della confisca di beni nella formale titolarità di terzi, tra i quali il OMISSIS
b) che, a seguito di impugnazioni del proposto e dei terzi interessati, la Corte di appello di Palermo, previa riunione dei vari procedimenti, con decreto 03/03/2005, aveva confermato il decreto, condannando gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali (pari a Euro 3.744.344,90), provvedimento divenuto successivamente irrevocabile.
Ciò premesso il Magistrato di sorveglianza ha ritenuto che la nuova formulazione contenuta nel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6, che più genericamente rispetto a quella dell’abrogato art. 56 Ord. Pen. usa il termine “interessato” e non più quello di “condannato”, non autorizza a ritenere che chiunque sia incorso in una condanna alle spese processuali pronunciata da un giudice in materia penale possa accedere al beneficio della remissione del debito, atteso che la norma di cui all’art. 6 citato ha dovuto tenere conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 342/1991 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della precedente formulazione nella parte in cui non prevedeva che le spese del procedimento potessero essere rimesse anche nel caso di condannato che non avesse sofferto periodi di detenzione.
Inoltre il Magistrato ha rilevato che l’interpretazione della norma non può non considerare le origini e la ratio dell’istituto della remissione del debito che, unitamente alle finalità premiali, ha come obiettivo specifico quello di agevolare il percorso di recupero sociale del soggetto che potrebbe essere compromesso, con il rischio di ulteriori spinte criminogene, qualora, pur versando in condizioni di disagio economico, dovesse essere chiamato ad adempiere al proprio debito per le spese di giustizia.
Pertanto, ad avviso del Magistrato, la sfera di applicazione soggettiva dell’istituto non può che restare rigorosamente circoscritta alle categorie dei condannati ed internati.
Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, il quale – dopo aver premesso che al OMISSIS, il quale si trovava in disagiate condizioni economiche ed aveva sempre serbato regolare condotta, era stata notificata dalla “Serit Sicilia s.p.a.” cartella esattoriale di pagamento delle spese processuali per un importo di Euro 898.958,20 – ne ha chiesto l’annullamento per violazione di legge e per carenza e manifesta illogicità della motivazione.
In particolare il difensore ha dedotto la violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6, comma 1 sul rilievo che l’istituto della remissione del debito è stato integralmente riformato dal citato art. 6 con espressa abrogazione dell’art. 56 Ord. Pen., che precedentemente lo disciplinava. La nuova norma prevede testualmente che la remissione possa essere chiesta dall'”interessato” che non è stato “detenuto o internato”, riconoscendo, quindi, la legittimazione a qualsiasi interessato con la finalità di allargare il principio di premialità posto a fondamento dell’istituto. Diversamente non si comprenderebbe la ragione per la quale il legislatore ha ritenuto di sostituire il termine “condannato” indicato nella precedente norma con quello di “interessato”. D’altro canto, secondo il difensore, il ricorrente deve ritenersi comunque “condannato”, tenuto conto che è stato condannato al pagamento delle spese processuali. A sostegno della propria tesi il difensore ha richiamato precedenti decisioni dello stesso Magistrato di sorveglianza di Palermo con le quali era stata ritenuta ammissibile la remissione del debito avanzata da altri coobligati, unitamente al ricorrente, nello stesso procedimento di prevenzione.
Il difensore ha, altresì, dedotto sulla base delle medesime argomentazioni che la interpretazione restrittiva affermata dal giudice di merito si pone in contrasto con il principio di cui all’art. 3 Cost., in quanto a parità di situazioni verrebbero a stabilirsi trattamenti diversi tra chi è stato condannato al pagamento delle spese processuali del giudizio penale senza essere destinatario di sanzione penale e chi ha subito la medesima condanna alle spese essendo stato ritenuto penalmente responsabile. Quindi, paradossalmente, chi ha commesso un reato sarebbe maggiormente avvantaggiato rispetto ad un terzo estraneo.
In data 12/02/2013 il difensore ha depositato memoria difensiva con la quale, oltre a riportarsi ai precedenti motivi, cita precedenti decisioni di questa Corte che hanno ritenuto ammissibile la richiesta di remissione del debito avanzata dal terzo interessato intervenuto in un procedimento di prevenzione.
Il ricorso, ad avviso del Collegio, non è fondato e, pertanto, deve essere rigettato. Non sfugge a questo Collegio che con due precedenti decisioni (nn. 11054/13 e 11057/13, c.c. del 07/02/2013) questa stessa sezione ha ritenuto ammissibile la richiesta di remissione del debito avanzata da un terzo interessato nel procedimento di prevenzione, argomentando che la nuova formulazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6 – usando il termine “interessato” e non più i termini “condannato” o “internato” di cui all’abrogato art. 56 Ord. Pen. – abbia voluto estendere il beneficio a tutti i soggetti intervenuti in un procedimento di prevenzione, i quali siano stati condannati al pagamento delle spese processuali. Ma tale soluzione non appare convincente anche alla luce di una decisione di questa sezione di senso contrario (n. 15665/13, c.c. 16/01/2013), che ha sviluppato argomenti ben più significativi che portano ad escludere che un terzo interessato, intervenuto in un procedimento di prevenzione e condannato al pagamento delle spese processuali, possa beneficiare dell’istituto della remissione del debito.
Il Collegio ritiene di aderire a questo secondo indirizzo riportando qui di seguito gli argomenti posti a base della predetta decisione.
Invero la questione di diritto posta all’esame del Collegio ha riguardo alla legittimazione a domandare (quindi alla ammissibilità della richiesta) la remissione del debito, di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6, di soggetti condannati al pagamento delle spese processuali nel procedimento di prevenzione.
Nel caso di specie l’istanza di remissione del debito è stata avanzata da un terzo intestatario di beni oggetto di confisca intervenuto nel procedimento di prevenzione a carico del quale i giudici di merito hanno posto il pagamento in solido delle spese del procedimento.
Tanto precisato, è opportuno prendere le mosse dalla considerazione che la remissione del debito, disciplinata dal vigente D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6 al titolo 2 relativo alle “disposizioni generali relative al processo penale” riguarda soltanto le spese del processo penale; nessuna disposizione del citato D.P.R., infatti, consente l’applicazione dell’istituto oltre le spese del processo penale cui esclusivamente si riferisce.
Come è stato affermato dalla Corte costituzionale (n.98/1998 e n.57/2001), l’obbligazione relativa alle spese processuali nel processo penale deve essere considerata non come obbligazione civile, ma vera e propria sanzione economica accessoria alla pena. Tale assunto è stato raccolto e ulteriormente ribadito anche dalla Corte di legittimità e da ultimo con la decisione delle Sez. U., n. 491 del 2011, Pislor.
Orbene, è del tutto evidente che non possono assumere la predetta natura le spese processuali eventualmente poste a carico del terzo interessato nel procedimento di prevenzione, tenuto conto che tale procedimento non può mai comportare l’irrogazione di una pena, non essendo in alcun modo paragonabile ad essa nè la misura di prevenzione personale (pur essendo connotata da un contenuto limitativo della libertà personale), nè la misura di prevenzione patrimoniale alla cui applicazione è finalizzato il procedimento di prevenzione.
Del resto – come è stato affermato in più occasioni – il terzo che interviene nel procedimento di prevenzione laddove venga in esame l’applicazione di una misura patrimoniale, sia che intervenga volontariamente, sia che partecipi iussu iudicis, non è destinatario della misura di prevenzione, ma portatore nel procedimento di prevenzione di un mero interesse di natura civilistica (da ultimo Sez. 2, n. 27037 del 27/03/2012 – dep. 10/07/2012, Bini, rv. 253404).
E’ nota, altresì, la differenza strutturale tra il fatto reato oggetto del processo penale, cui consegue una pronuncia di condanna e l’irrogazione di una pena o di una misura di sicurezza, e la fattispecie astratta delle misure di prevenzione, funzionali alla tutela della sicurezza pubblica, che non sono connesse a responsabilità penali dei soggetto, non si fondano sulla colpevolezza, nè hanno carattere sanzionatorio di doveri giuridici, ma sono collegate ad un complesso di comportamenti integranti una “condotta di vita” che il legislatore assume come indice di pericolosità sociale. La distanza dal paradigma sanzionatorio del procedimento di prevenzione è stata sottolineata anche rammentando come la Corte di Strasburgo (6/11/1980, Guzzardi; 22/2/1994, Raimondo; 6/4/2000, Labita), nell’affrontare la questione della qualificazione delle misure di prevenzione previste dal nostro ordinamento, recependo la c.d. concezione autonomistica dell’illecito penale, le abbia ritenute estranee all’area della “materia penale” escludendole addirittura, almeno in astratto, dal novero delle misure privative della libertà personale di cui all’art. 5 della Convenzione EDU e qualificandole come semplici restrizioni alla libertà di circolazione di cui all’art. 2 del protocollo n. 4 della Convenzione (Sez. U, n. 10281 del 25/10/2007 – dep. 06/03/2008, Gallo, rv. 238657).
D’altro canto – come è stato evidenziato nell’ordinanza impugnata – la modifica della disciplina della remissione del debito, prima prevista dell’abrogato art. 56 Ord. Pen., secondo l’art. 6 del T.U. sulle spese di giustizia non è connotata da elementi tali da aver inciso sulla natura e sulla ratio dell’istituto che, al contrario, mantiene le sue caratteristiche premiali ancorate alla condotta ed alle disagiate condizioni economiche del soggetto a carico del quale le spese sono poste in quanto condannato nell’ambito del processo penale.
Invero, il legislatore ha trasfuso nel contesto della disciplina delle spese di giustizia l’istituto della remissione del debito, apportandovi le modifiche rese necessarie dagli interventi della Corte costituzionale (n. 342/91), che aveva dichiarato illegittimo l’art. 56 Ord. Pen. nella parte in cui non prevedeva che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, potessero essere rimesse le spese del procedimento al condannato che avesse serbato in libertà una regolare condotta e versasse in disagiate condizioni economiche. E’ stato, infatti, evidenziato in dottrina come la nuova collocazione confermi che la remissione del debito rappresenta un beneficio di natura economica che mira ad estinguere il debito del condannato per spese di mantenimento e processuali; rappresenta, cioè, una forma di rinuncia abdicativa da parte dello Stato ad un proprio credito diretta ad agevolare il reinserimento del soggetto nel momento più delicato della dimissione, attenuando le difficoltà che il soggetto può incontrare nel periodo successivo alla espiazione della pena ed evitando che coloro che abbiano espiato la pena ed abbiano dimostrato di avere positivamente compiuto un processo di responsabilizzazione e di acquisizione delle regole minime di convivenza civile si vedano poi ostacolati proprio nel momento del reinserimento a causa dei debiti residui nei confronti dello Stato costituiti da spese processuali e di mantenimento in carcere.
Tali finalità dell’istituto non possono ritenersi snaturate in ragione della circostanza che nella formulazione rinnovata rispetto all’art. 56 Ord. Pen., l’art. 6 del più volte citato D.P.R. faccia riferimento all'”interessato” e non al “condannato”. Anche l’attuale lettera della norma, per vero, non può che condurre alla individuazione dei destinatari del beneficio in coloro che siano stati condannati nel processo penale, posto che al comma 2 viene fatto riferimento a chi “è stato detenuto o internato” e al comma 1 a chi “non è stato detenuto o internato”, ossia a soggetti comunque condannati in un processo penale.
Non è, quindi, venuto meno il presupposto dell’istituto nella sussistenza di indici di ravvedimento del condannato, ancorchè riferibile – in conformità con la pronuncia della Corte Cost. n. 342/1991 – anche ai soggetti che non hanno espiato la pena o non la hanno espiata in carcere.
Nè può assumere rilievo – come vorrebbe il ricorrente – un generico riferimento ai soggetti condannati al pagamento delle spese anche a prescindere dalla condanna a sanzione penale, non potendosi in tal caso spiegare la limitazione del beneficio al processo penale di cui, anche dal punto di vista sistematico della norma nell’ambito del T.U. sulle spese di giustizia, non è dato dubitare.
Per quel che riguarda specificamente l’applicabilità dell’istituto della remissione del debito al procedimento di prevenzione, deve poi evidenziarsi che sotto il profilo processuale tale procedimento non può farsi rientrare nel processo penale in senso stretto, trattandosi, come è noto, di procedimento che ha nel tempo acquisito natura giurisdizionale con caratteristiche e disciplina proprie, al quale sono applicabili alcune norme del procedimento di esecuzione penale, art. 666 cod. proc. pen., ed altre disposizioni del codice di rito in conseguenza di espresso rinvio a dette norme. Tanto è confermato, del resto, anche dalla novella disciplina del D.Lgs. n. 159 del 2011.
Non può, quindi, ritenersi argomento utile – come, invece, afferma il Procuratore generale nella sua requisitoria scritta – al fine di sostenere l’applicabilità della remissione del debito ai soggetti coinvolti nel procedimento di prevenzione, la disposizione dell’art. 204 del D.P.R. citato. Tale norma, contenuta nella parte 7 relativa alla “riscossione”, titolo 1, capo 2, nell’ambito dei principi dettati per il processo penale, prevede specificamente che nel processo di prevenzione si proceda al recupero delle spese solo in caso di condanna alle spese da parte della Corte di cassazione.
Dall’inserimento sotto il capo “principi per il processo penale”, in tema di riscossione, di una disciplina eccezionale della materia delle spese per il procedimento di prevenzione nei sensi indicati (al pari di quella prevista per il procedimento di sorveglianza e di esecuzione) non può desumersi l’applicazione della remissione del debito alle spese relative al procedimento di prevenzione. Al contrario, la norma richiamata conferma come il procedimento di prevenzione si caratterizzi in maniera peculiare anche per quel che riguarda le spese processuali rispetto al processo penale cui esclusivamente si riferisce la disciplina dell’art. 6 contenuto nel titolo 2 della parte 1 del D.P.R. n. 115 del 2002.
Peraltro, posto che dal citato art. 204 discende che al procedimento di prevenzione non consegue ne può conseguire, fatto salvo per il giudizio di cassazione, la condanna alle spese processuali, nè nei confronti del proposto, nè dei terzi interessati, a maggior ragione, dal procedimento di prevenzione non può derivare quella sanzione economica accessoria alla pena suscettibile di remissione attraverso l’istituto della remissione del debito di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6.
Nè, all’evidenza, la ratio e la natura della remissione del debito, di cui si è detto sin qui, possono essere piegate a finalità del tutto estranee all’istituto quale rimedio ad una eventuale errata pronuncia in ordine alla condanna alle spese processuali. Tale pronuncia, all’evidenzia estranea all’esame di cui è investita la Corte in questa sede, può essere impugnata attraverso i mezzi propri previsti dall’ordinamento sia in sede penale che in sede civile ed è opportuno, in specie, ricordare che le Sezioni Unite (n. 15 del 31/05/2000, Radulovic; n. 7945 del 31/01/2008, Boccia) hanno ritenuto ammissibile la procedura della correzione dell’errore materiale, ex art. 130 cod. proc. pen., sottolineando come la correzione in punto di condanna alle spese incida non sul contenuto intrinseco della pronuncia relativa al thema decidendum, ma semplicemente su una pronuncia consequenziale ed accessoria alla prima e non implicante alcuna discrezione valutativa da parte del giudice; pertanto, la correzione dell’errore materiale in tal caso non si pone come (inammissibile) rimedio ad un vizio della volontà del giudice o ad un suo errore di giudizio, ma è soltanto lo strumento per eliminare la disarmonia tra la manifestazione esteriore costituita dal documento-sentenza e quanto poteva e doveva essere statuito ex lege.
Ogni questione, poi, sull’ammontare delle spese processuali deve essere fatta valere attraverso i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento in sede civile (Sez. U., n. 491 del 2011, Pislor, rv. 251265).
Resta, pertanto, solo da rilevare che, tenuto conto del contenuto del provvedimento impugnato sintetizzato in premessa, il dedotto vizio di motivazione risulta manifestamente infondato e che, stante la specifica posizione del terzo nei sensi già richiamati, si palesa, altresì, la manifesta infondatezza della violazione dell’art. 3 Cost. denunciata dal ricorrente, dovendosi, peraltro, ribadire che la pronuncia Corte cost. n. 342/1991 aveva rilevato la illegittimità dell’abrogato art. 56 Ord. Pen. facendo, comunque, esclusivo riferimento ai soggetti “condannati” che dovevano essere ugualmente legittimati a chiedere la remissione del debito, sia che avessero sofferto la detenzione, sia che avessero diversamente espiato la pena o non l’avessero affatto espiata.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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