Il principio del divieto di reformatio in peius non ha lo scopo di attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma persegue unicamente la finalità di non esporlo ad un trattamento sanzionatorio più severo rispetto a quello riservatogli dal primo giudice (Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la decisione con la quale la Corte di Appello di Messina, mantenendo ferma la pena irrogata con la sentenza di primo grado, aveva ritenuto di qualificare la condotta dell’imputato con un reato più grave ed ostativo alla declaratoria di prescrizione).
(Cass. Sezione I Penale, 17 dicembre 2012 – 8 gennaio 2013, n. 474)

Corte Suprema di Cassazione
Sezione Prima Penale
Sentenza 17 dicembre 2012 – 8 gennaio 2013, n. 474

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIEFFI Severo – Presidente –
Dott. SIOTTO Maria Cristina – Consigliere –
Dott. CAVALLO Aldo – Consigliere –
Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –
Dott. BARBARISI Maurizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da: (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 176/2009 CORTE APPELLO di MESSINA, del 11/07/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/12/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAFFAELE CAPOZZI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Galasso Aurelio che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
1. Con sentenza dell’11 luglio 2011 la Corte d’appello di Messina ha ridotto da 4 a 2 mesi di arresto la pena inflitta a P.G. dal Tribunale di Mistretta per il reato sub e) (violazione L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 1: aver omesso di presentarsi il (OMISSIS) all’autorità di polizia preposta alla sorveglianza dalle ore 12,00 alle ore 13,00), dopo avere dichiarato estinti per prescrizione le contravvenzioni ascrittegli sub a) e sub b).
2. La Corte ha ritenuto che non poteva dichiararsi estinto per prescrizione anche il reato sub c), in quanto nel 2005 era intervenuta una modifica normativa della L. n. 1423 del 1956, art. 9 a seguito della quale erano stati trasformati in delitto le violazioni degli obblighi della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, qual’era appunto quella applicata all’appellante, si che il reato anzidetto era ormai da ritenere un delitto, nonostante fosse stata ad esso applicata la pena dell’arresto, con la conseguenza che lo stesso non poteva ritenersi estinto per intervenuta prescrizione.
2. Avverso detta sentenza della Corte d’appello di Messina propone ricorso per cassazione P.G. per il tramite del suo difensore, che ha dedotto erronea applicazione della legge penale, per avere la sentenza impugnata ritenuto di non dichiarare estinto anche il reato sub c) per intervenuta prescrizione, avendo ritenuto che lo stesso fosse un delitto e non più una contravvenzione, a seguito della modifica della L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2 intervenuta col D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 9, comma 2 convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 155.
Era stato invero violato nei suoi confronti il principio del divieto di reformatio in peius, di cui all’art. 597 c.p.p., comma 3, in mancanza di appello proposto dal P.M..
1. Il ricorso proposto da P.G. è infondato.
2. Correttamente invero la sentenza impugnata ha rilevato l’errore in cui era incorso il primo giudice, per avere esso ritenuto come contravvenzione il reato ascritto al ricorrente sub c), concernente la violazione degli obblighi su di lui incombenti quale sottoposto alla sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, atteso che, a seguito della modifica della L. n. 1423 del 1956, art. 9 comma 2 intervenuta col D.L. n. 144 del 2005, convertito con modificazioni nella L. n. 155 del 2005, entrato in vigore il 23 luglio 2005 e quindi prima del (OMISSIS), data di contestazione al ricorrente della violazione sub c), tutte le violazioni degli obblighi di sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno sono da ritenere delitti.
3. La sentenza impugnata ha fatto pertanto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte, alla stregua della quale se la nuova definizione giuridica del reato più grave non consente, a differenza di quella originaria, l’applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve escludere tale applicazione e la conseguente estinzione del reato, essendo egli legittimato, ai sensi dell’art. 597 c.p.p., comma 3, ad attribuire al fatto un diverso e più grave nomen iuris.
4. Invero il principio del divieto di reformatio in peius non ha lo scopo di attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma persegue unicamente la finalità di non esporlo ad un trattamento sanzionatorio più severo rispetto a quello riservatogli dal primo giudice.
Il legislatore si è invero preoccupato di consentire, in presenza di un errore del primo giudice in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, al giudice di appello di porvi rimedio, al fine di garantire una corretta applicazione della legge penale; ed è evidente che, da una diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, ben possono derivare effetti negativi per l’imputato in termini di impossibilità di applicare cause estintive o benefici; ma trattasi di conseguenze necessarie ed inevitabili, collegate alla facoltà concessa al giudice di appello di qualificare diversamente il fatto, avendo il legislatore ritenuto preminente l’interesse a che le pronunce emanate dai giudici siano quanto più possibile conformi alla legge (cfr., in termini, Cass. Sez. 2 n. 36217 del 16/6/2011, De Silvio, Rv.251160).
5.Pertanto il reato sub e) è stato correttamente qualificato dalla sentenza impugnata come delitto, si che esso, contestato come commesso il (OMISSIS) e considerati altresì i 105 giorni di sospensione, alla data odierna è da ritenere non ancora prescritto.
6. Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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