Qualora la nuova definizione giuridica piu’ grave non consente, a differenza di quella originaria, l’applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve escludere tale applicazione – e la conseguente estinzione del reato – essendo egli legittimato ad attribuire al fatto un diverso e piu’ grave nomen iuris
Il limite alla reformatio in peius non e’ infatti diretto ad attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo piu’ favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma ha il solo scopo di impedirgli di subire un trattamento sanzionatorio piu’ severo di quello riservatogli dal primo giudice.
(Cass. Sezione II Penale, 16 giungo – 6 ottobre 2011, n. 36217)

Corte Suprema di Cassazione
Sezione Seconda Penale
Sentenza 16 giungo – 6 ottobre 2011, n. 36217

sul ricorso proposto da:
DE. SI. Fe. n. a (OMISSIS);
DE. SI. Ma. n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 6773/2010 della 3 Sezione Penale della Corte d’Appello di Roma in data 18.10.2010;
Sentita la relazione della causa fatta in pubblica udienza dal consigliere dott.ssa Giovanna VERGA;
Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, dott. Giuseppe VOLPE il quale ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio per prescrizione con riguardo al reato di cui all’articolo 610 c.p. cosi’ come originariamente contestato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con sentenza del 18.10.2010 la Corte d’Appello di Roma, a seguito di impugnazione degli imputati, in riforma della sentenza del GUP presso il Tribunale di Cassino che, in data 17.5.2007, aveva condannato DE. SI. Ma. e DE. SI. Fe. alla pena di mesi 9 di recl. per il reato di cui all’articolo 610 c.p., cosi’ qualificata l’originaria imputazione di concorso in estorsione e dichiarato non doversi procedere per il reato di cui all’articolo 641 c.p., ravvisabile nel segmento di condotta ascritta come estorsione e per il reato di cui all’articolo 582 c.p. per improcedibilita’ per difetto di querela, qualificato il fatto, come concorso in tentativo di estorsione, confermava nel resto la sentenza di primo grado.
Ricorre per Cassazione il difensore degli imputati deducendo come unico motivo che la Corte d’Appello non poteva riqualificare il fatto riconducendo l’azione ad unitarieta’ perche’ su una parte della condotta (insolvenza fraudolenta) l’accertamento era definitivo. Richiamava la sentenza di primo grado sottolineandone la condivisibilita’ delle argomentazioni.
In ordine alla diversa qualificazione giuridica del reato deve osservarsi che la Corte territoriale ha correttamente applicato l’articolo 597 c.p.p., che consente, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto un definizione giuridica piu’ grave, purche’ non venga superata la competenza del giudice di primo grado.
I giudici d’appello con motivazione coerente e priva di vizi logici hanno dato conto di non concordare con la qualificazione giuridica data al fatto dal primo giudice e hanno ritenuto che esso doveva essere qualificato come tentativo di estorsione dovendosi ricondurre l’intera azione ad unitarieta’. Hanno infatti sottolineato che gli imputati hanno esercitato in danno di GA. violenza fisica e morale, come riconosciuto anche dal primo giudice, allo scopo di conseguire un profitto ingiusto, sottrarsi al pagamento dei pneumatici, cosi’ cagionando alle persone offese un danno patrimoniale, condotta che rientra nel paradigma dell’estorsione.
A fronte di tale motivazione il ricorrente si e’ limitato genericamente a contestare la decisione della Corte Territoriale affermando che l’azione non poteva essere valutata unitariamente, cosi’ come aveva fatto il primo giudice.
Deve aggiungersi che l’articolo 597 c.p.p., comma 3, con elencazione tassativa, specifica che, in caso di appello del solo imputato, il giudice non puo’ irrogare una pena piu’ grave, applicare una misura di sicurezza nuova o piu’ grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata, ne’ revocare benefici. Il divieto della reformatio in peius quindi impedisce un trattamento piu’ grave (nei termini indicati), ma non garantisce all’imputato un trattamento sotto ogni aspetto migliore di quello a lui riservato in primo grado. Questa Corte ha gia’ enunciato il condivisibile principio che se la nuova definizione giuridica piu’ grave non consente, a differenza di quella originaria, l’applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve escludere tale applicazione – e la conseguente estinzione del reato – essendo egli legittimato ad attribuire al fatto un diverso e piu’ grave nomen iuris. Il limite alla reformatio in peius non e’ infatti diretto ad attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo piu’ favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma ha il solo scopo di impedirgli di subire un trattamento sanzionatorio piu’ severo di quello riservatogli dal primo giudice (Cass. Pen, Sez. 3, n. 28815/2008; sez. 6A n. 4075 del 17.2.1998).
Come affermato da questa Suprema Corte il legislatore si e’ preoccupato, invero, di consentire, in presenza di un errore del primo giudice in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, al giudice di appello di porvi rimedio e cio’ al fine di garantire una corretta applicazione della legge penale. E’ evidente che da una diversa e piu’ grave qualificazione possono derivare effetti negativi per l’imputato (in termini di impossibilita’ di applicare cause estintive o benefici, ed anche sotto il profilo “morale”), ma questa e’ una conseguenza necessaria ed inevitabile della facolta’ concessa al giudice di appello di qualificare diversamente il fatto. Il legislatore quindi, nel prevedere tale possibilita’, ha ritenuto preminente l’interesse a che la pronuncia emanata sia conforme a diritto.
Peraltro l’imputato avverso la diversa qualificazione giuridica del fatto ha la possibilita’ di esperire il rimedio dell’impugnazione. Ma, una volta accertato irrevocabilmente che il fatto da lui commesso sia stato correttamente qualificato (anche se in modo piu’ grave rispetto all’erronea valutazione iniziale), non puo’ poi dolersi che tale diversa (ma “giusta”) qualificazione impedisca l’applicazione di determinati benefici.
Ne consegue che il reato correttamente qualificato come tentativo di estorsione alla data odierna, considerati anche i 21 mesi di sospensioni, non e’ ancora prescritto.
Il ricorso deve pertanto essere respinto con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Avvocato cassazionista, svolge attività stragiudiziale e giudiziale in materia di diritto penale, con particolare riferimento al diritto penale dell’impresa e dell’economia, nonché in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001. Ha maturato una significativa esperienza in materia di responsabilità da colpa medica. È Presidente e componente di Organismi di Vigilanza previsti dal D. Lgs. n. 231/2001 anche di società multinazionali.

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