La “croce dei criminalisti” come sul finire dell’ottocento Pasquale Tuozzi definì il tema classico del fondamento e della natura della recidiva, ha da sempre disorientato tutti gli operatori del settore.
Dopo un lungo iter parlamentare, avviatosi nel 2001, spesso tormentato e burrascoso, è stata varata la legge 5 dicembre 2005, n. 251, che ha riscritto l’art. 99 del codice penale ed ha quindi modificato i tratti caratteristici dell’istituto.
Già prima dell’approvazione e della successiva pubblicazione della novella si erano levate aspre critiche non solo sulla plusvalenza negativa della progettata disciplina della recidiva, ma altresì per i suoi riflessi sula prescrizione e sul regime penitenziario, secondo modalità e cadenze che avrebbero comportato la teorizzazione di un passato irredimibile tanto da schiacciare il presente e togliere la speranza del futuro.
In realtà, nulla di tutto questo è dato riscontrare da una serena e non preconcetta lettura delle nuove disposizioni in materia, alla cui base sta un ripensamento in chiave rivalutativa del significato etico della recidiva: la ampia liberalizzazione dell’istituto, nei termini in cui era stato contemplato dalla riforma dell’art. 99 c.p., disposta dall’art. 9 del d.l. 11 aprile 1974, n. 99 convertito con modificazioni dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, aveva finito con il diluire il carattere morale della ricaduta nell’illecito, in quanto già in sede teorica non sarebbe più sussistito per il condannato l’obbligo di emendarsi e sul piano pratico si sarebbe poi dovuto riscontrare che il giudice era indotto  a sottostimare il significato dell’inasprimento di pena da comminare al “già reo”. Non a caso, un Maestro della penalistica italiana quale è Francesco Carrara aveva ammonito è considerare la recidiva come “la sola che possa mostrare nel delinquente la pertinace insensibilità della pena”.
La previsione azzardata da Giuliano Vassalli, secondo cui la riforma del 1974 sarebbe stata suscettibile di consentire l’applicazione dei benefici ivi stabiliti unicamente in casi meritevoli e non in maniera indiscriminata ed automatica, non si è purtroppo avverata: il modo in cui nel nostro sistema, è stata intesa dalla giurisprudenza, soprattutto di merito, la introduzione di un momento di discrezionalità nel commisurare la pena per il nuovo reato, ha fatto perdere alla recidiva gran parte del suo valore etico e del suo significato, in sintonia con valutazioni tendenti a confinare il ruolo del diritto penale in un area, ristretta ed ammiccante ad un vacuo sociologismo di mera funzionalità.
Da qui prende le mosse la reazione del legislatore del nuovo secolo, che ha colto le esigenze, reclamate a gran voce da un ormai diversa esperienza giuridica, dinanzi ad un innegabile aumento della criminalità ed al conseguente allarme manifestatosi nella collettività: perciò, si chiedeva anche un più severo intervento della potestà punitiva dello Stato nei confronti di chi torna a delinquere dopo aver subito una condanna definitiva. Per ben comprendere il senso delle polemiche innescate dalla novella del 2005 pare opportuno riassumere schematicamente le linee portanti che ora configurano l’istituto in esame, tracciate dal’art. 4 della citata legge n. 251, che non incide sulla disciplina speciale prevista dall’art. 52, comma 3, del d.lgs. 28 agosto 200, n. 274 per i reati di competenza del giudice di pace, da coordinarsi con il nuovo testo del’art. 69 comma 4 c.p. che per i recidivi reiterati fa divieto di dichiarare la prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute aggravanti.
Di regola, pertanto la recidiva resta facoltativa: nella forma semplice colpisce chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro e comporta un aumento (facoltativo) di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo (art. 99 comma 1 c.p.)
La recidiva è aggravata per chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro della stessa indole con conseguente possibile aumento fino alla metà della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo (art. 99 comma 2 n. 1 c.p).
E’ infraquinquennale per chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro nei cinque anni dalla condanna precedente, con conseguente possibile analogo aumento fino alla metà della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo ( art. 99 comma 2, n. 2 c.p.) Tale inasprimento sanzionatorio può applicarsi anche a chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro durante o dopo l’esecuzione della pena ovvero durante il tempo in cui si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena ( art. 99 comma 3 c.p.).
La recidiva è poi reiterata se il recidivo commette un altro delitto non colposo: se si tratta di recidivo “semplice” l’aumento facoltativo è della metà della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo, ma in presenza di un recidivo “aggravato” tale aumento, per tutti i casi contemplati nel secondo comma dell’art. 99 c.p.) è fissato nella misura di due terzi della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo (art. 99 comma 4 c.p.).
Affianco a queste ipotesi facoltative si affiancano alcune ipotesi di obbligatorietà dell’aumento di pena ex art. 99 comma 5, nel caso in cui il nuovo delitto rientri fra quelli indicati dall’art. 407 comma 2 lett. a c.p.p. e se si tratta di recidivo “aggravato” tsle aumento non può essere inferiore ad un terzo della pena pena da infliggere per il nuovo delitto. Il sesto comma del medesimo articolo stabilisce, tuttavia, un limite invalicabile agli aumenti di pena per effetto della recidiva: in ogni caso non si può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo.
E’ di tutta evidenza come si sia notevolmente accresciuto il peso della recidiva, sul presupposto che la colpevolezza dell’abitudinario , cioè del “già reo” ergendosi sul fatto e dominandolo, è più intensa di quella dell’agente che trasgredisce il precetto penale per la prima volta. La strategia della moderazione, fatta propria dalla ricordata novella del 1974, non aveva dato i frutti autorevolmente sperati, perché implicava fra l’altro una attitudine di razionalizzazione dogmatica, assieme ad un serio rinnovamento dell’intera prospettiva penale: la dolcificazione della reazione sanzionatoria, poteva, infatti, restituire efficacia al sistema punitivo soltanto alla condizione di un radicale cambiamento nella sua struttura e nel funzionamento dell’apparato giudiziario, e di incisivi interventi sul piano delle riforme economico-sociali.
Ora, invece, il restringimento dell’area rimessa al prudente apprezzamento del giudice , cui si è progressivamente assistito nel nostro sistema, quale risposta del legislatore per porre rimedio ad una tale situazione, non significa, però, in relazione agli aspetti inerenti alla recidiva un semplice ritorno alla originaria versione contenuta nel codice Rocco. Anzi, l’interprete, è subito avvertito dalla mera lettura del nuovo testo dell’art. 99 c.p. che l’ambito di operatività della recidiva è ora circoscritto al settore dei delitti dolosi, mentre in antecedenza si riferiva a qualsiasi “reato”: una simile scelta “che restaura sostanzialmente una limitazione già esistente nel codice Zanardelli”  è maturata nel corso dei lavori parlamentari, in quanto non prevista nel progetto originario, ed è stata adottata nella prospettiva di introdurre un temperamento al maggior vigore della nuova disciplina accentuando il profilo retributivo dell’aggravamento di pena, con  ridimensionamento di qualsiasi vocazione special-preventiva.
Il riferimento esclusivo ai delitti non colposi, contenuto nell’attuale formulazione dell’art. 99 c.p., potrebbe sollevare alcune perplessità con riferimento alle fattispecie contravvenzionali dolose (8 si pensi ad esempio a quelle in materia ambientale), tanto più se si ha presente che l’art. 8 bis della legge 24 novembre 1981, n. 689, introdotto dall’art. 94 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 ha dettato una disciplina ad hoc per la reiterazione di violazioni amministrative per le qual ha comunque rilevanza l’elemento soggettivo, come dispone l’art. 3 di detta legge. In tale ambito la “ricaduta” è però ancorata al provvedimento amministrativo “esecutivo” e rileva soltanto in presenza di violazioni “della stessa indole2, cioè della medesima disposizione (reiterazione specifica) o di disposizioni diverse che, per la natura dei fatti che le costituiscono o per le modalità della condotta, presentano “ una sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni” (art. 8 bis comma 2) sulla scorta di elementi in parte ritagliati dall’art. 101 c.p., e comunque mal modulati in rapporto alla struttura che l’illecito amministrativo si è data. Non è però consentito soffermarsi sull’aspetto esteriore della ripetizione materiale delle azioni illecite: occorre viceversa, puntare sula peculiarità della disciplina legislativa del fenomeno della ricaduta nell’illecito. La reiterazione come scriveva Francesco Carnelutti “è un parto della nostra mente” e, quindi, con il conferire eccessivo ed unico rilievo a questa categoria dogmatica si sovrappone inconsapevolmente un criterio di natura metagiuridica alla ricerca obiettiva del dato normativo che è alla base del fenomeno giuridico. Ecco spiegato anche perché non può sostenersi uno spostamento dell’attenzione del legislatore del 2005 dalla recidiva al recidivo, identificato come vero e proprio “tipo di autore”, in quanto tale – a prescindere dal concreto profilo dei fatti per cui viene condannato – meritevole di un più severo trattamento e da considerarsi un nemico da isolare e da abbattere. Così facendo si scivolerebbe su un campo assai delicato il c.d diritto penale d’autore che discende dalla Täterschuld di derivazione germanica o addirittura in un diritto penale dell’atteggiamento interiore la c.d. Gesinnungstrafrecht anch’essa figlia della tradizione dottrinale teutonica. Nel sistema penale, il dilemma della recidiva – riferita al passato ed intesa quale forma di maggior consapevolezza o riferito al futuro come sintomo di proclività a violare la legge e quindi la pericolosità, si scioglie nella considerazione che il ricordo della precedente condanna non si circoscrive ad un legame mentale con un episodio qualsiasi, cui il soggetto può anche rimanere estraneo, ma è carico di determinazioni morali e giuridiche ad un tempo, perché imprime un segno della personalità dell’individuo e colora di sé la sua successiva condotta di vita.
Questo ricordo null’altro rappresenta se non la naturale continuazione dell’esperienza maturata durante il giudizio di condanna e si proietta nel futuro attraverso la logica dell’avvertimento come forza dispiegata verso la coscienza del condannato.
Come nelle ipotesi del perdono giudiziale e della sospensione condizionale della pena è la meditazione sulla propria colpevolezza a suscitare nel soggetto il pentimento e con esso la riabilitazione morale, al punto da rendersi superflua ed ingiusta la condanna e l’effettiva esecuzione della pena inflitta, così nella recidiva la attualità del ricordo della precedente condanna attribuisce alla nuova azione criminosa il volto emblematico di una maggiore malvagità che implica pure una valutazione diversa della personalità del colpevole sotto il profilo dell’etica.
Un rilievo di tecnica legislativa si impone prima di esaminare le innovazioni introdotte nel 2005 che concernono anche ulteriori aspetti normativi come la negativa influenza della ricaduta nel delitto non colposo sul regime della prescrizione, della continuazione e del bilanciamento delle circostanze.
L’aumento di pena obbligatorio è stabilito giusta le osservazioni anzidette, quando il nuovo delitto rientri fra quelli considerati nell’art. 407 comma secondo lett. a c.p.p.: ne consegue che il catalogo ivi contenuto viene utilizzato ai fini di differenziare la disciplina di un istituto sostanziale, tracimando dal settore processuale, nel cui ambito aveva dato origine ad una sorta di doppio binario in materia, ad esempio, di durata delle indagini preliminari e della custodia cautelare. La scelta è evidente: si è strutturato un trattamento più rigoroso per determinare categorie di delitti, selezionati in rapporto alla loro oggettiva gravità e quindi all’allarme sociale da essi suscitato. Piuttosto che rilevare la loro non omogeneità, va notato che sono esclusi da quell’aumento automatico di pena previsto dall’art.99, comma 5 c.p., altri illeciti penali di eguale o maggiore gravità: è da chiedersi allora se non fosse stato maggiormente ragionevole e coerente con l’intento che ha mosso il legislatore a contemplare la previsione in discorso , collegare tale regime alla pena edittale stabilita per il delitto consumato per ultimo, avente omogeneità con il primo delitto non colposo commesso, in quanto indice di una pervicace ribellione al quadro di valori dell’ordinamento, radicatasi sull’ammonimento contenuto nella precedente condanna, tanto più se si riflette che lo stesso art. 99 comma 2 c.p., utilizza un simile criterio per identificare una delle ipotesi di recidiva aggravata.
Potrebbe affiorare al riguardo una irragionevole discriminazione per il recidivo reiterato in uno dei delitti elencati nella disposizione processualpenalistica puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, in quanto in tale caso la concessione delle attenuanti generiche viene ad essere preclusa, non potendosi tenere conto dei criteri di cui all’art. 133 comma 1 n. 3 e comma 2 c.p. (art. 62 bis, comma 2 c.p.) e quindi basarsi né sulla minore intensità del dolo, né su indici desunti dalla capacità a delinquere, che ad esempio, potrebbero far emergere motivi di valore parzialmente positivo.
In tema di bilanciamento di circostanze, le cui disposizioni si applicano anche a quelle inerenti alla persona del colpevole, è, dunque, consentito, in base all’art. 69 comma 4 c.p., di apprezzare positivamente solo i parametri indicati nell’art. 133 c.p., diversi dai suddetti e ritenuti prevalenti su quest’ultimi, impegnando pertanto il giudice a motivare adeguatamente sul punto e a non utilizzare le consuete e squallide “formulette pigre”.
Al recidivo reiterato è poi riservata una disciplina restrittiva del giudizio di comparazione di cui al’art. 69 c.p. anche quando ricorrono le aggravanti previste dall’art. 11 e 112 comma 1 n. 4 c.p., con l’avvertenza che lo sbarramento in discorso è riferito soltanto alla “prevalenza” e non alla “equivalenza” delle attenuanti, opzione intesa ad alleggerire gli effetti della recidiva reiterata, riportando la commisurazione in concreto della pena nei limiti edittali edittali semplici, in virtù della valutazione compensativa anche di una sola attenuante. Non sembra che questa nuova disciplina possa porsi in contrasto con le finalità rieducative della pena e con le pretese del danneggiato dal delitto alla reintegrazione del suo patrimonio pregiudicato dalla condotta del “già reo”: trova infatti sempre una sia pur limitata discrezionalità il giudice nella determinazione della pena in concreto, attraverso la concessione delle attenuanti generiche , ed i meccanismi risarcitori degli effetti lesivi della condotta illecita, come previsti dall’ordinamento nel suo complesso, non sono affatto toccati.
Il recidivo aggravato reiterato subisce pure effetti negativi nel computo dei termini prescrizionali che si incrementano una prima volta perché la recidiva, in quanto circostanza ad effetto speciale, accresce il massimo edittale sul quale si computa il termine (art. 157 comma 2 c.p.).
Sempre sul recidivo incombono anche le restrizioni disposte nel contesto delle misure alternative e dei benefici penitenziari, aumentandone la soglia quantitativa di concedibilità o addirittura precludendone la possibilità di fruizione, quasi che il legislatore del 2005 si fosse improvvisamente rammentato della eventuale rilevanza in materia del momento della effettiva espiazione della pena.
Da uno sguardo di insieme sulla nuova disciplina della recidiva, si evince dunque che la sottrazione al giudice della quantificazione dell’eventuale aumento di pena non è assoluta: anzi, come accadeva nella visione disegnata dal codice Rocco, il cui art. 100 poi abrogato, e frettolosamente dimenticato, consentiva al giudice, salvo che si trattasse di reati della stessa indole, la facoltà di escludere la recidiva fra delitti e contravvenzioni, ovvero fra delitti dolosi o preterintenzionali e delitti colposi, ovvero fra contravvenzioni, rimane a lui conferito un vasto potere di graduazione discrezionale in ordine alla quantificazione di un tale aumento. Si pensi ad esempio alla recidiva qualificata ex art. 99 comma 2 c.p.: viene innalzato rispetto alla previgente statuizione, il tetto edittale dell’aggravamento di pena, portato da un terzo fino alla metà, ma questo aumento è di carattere flessibile , continuandosi così a differenziare nel trattamento sanzionatorio le varie figure di recidiva senza con ciò rinunciare contestualmente all’autonoma previsione contenuta nel terzo comma dell’art. 99 c.p. per il caso di concorso di più ipotesi di recidiva aggravata, nonché al generale inasprimento degli aumenti di pena che non può superare la quota dei due terzi (art. 99 comma 4 c.p.). Spetterà quindi al prudente apprezzamento discrezionale del giudice evitare che nella valutazione del singolo caso si determinino fra coimputati diversamente recidivi disparità di trattamento, in quanto per la recidiva semplice la pena può essere aumentata in misura fissa e non graduabile ( art. 99 comma primo c.p.).
La legge del 2005 ha modificato anche l’art. 81 c.p., aggiungendovi un quarto comma per comprimere la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’aumento di pena conseguente al concorso formale ed alla continuazione dei reati, quando, nei confronti dei soggetti interessati a tali istituti sia stata applicata” la recidiva reiterata ex art. 99 comma 4 c.p.. In tal caso l’aumento di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.
Al fine di percepire l’esatta portata della cennata innovazione e per fugare alcuni dubbi che solleva la rozza espressione utilizzata dal legislatore (La recidiva non si applica, ma la si riconosce con eventuale od obbligatorio aumento di pena), occorre sottolineare il ritocco apportato nel contempo all’ art. 671 c.p.p., dove è stato inserito un comma 2 bis, richiamante appunto il quarto comma dell’art. 81 c.p.: il che sta a significare che il vincolo in esame posto al giudice nella determinazione dell’aumento di pena prescinde dalla circostanza che la recidiva reiterata sia stata “riconosciuta” nello stesso contesto, potendo invece essa derivare da precedente condanna che afferisce a reato per cui non viene applicato il regime previsto dall’art. 81 c.p..
Non può certo dubitarsi che il nuovo comma aggiunto al previgente testo dell’art. 81 c.p. già modificato nel 1974, introduce elementi valutativi soggettivi inerenti al “già reo”, estranei ai profili dei reati coinvolti nel concorso formale o nella continuazione, i quali potrebbero anche essere stati commessi in epoca antecedente alle condanne comportanti il riconoscimento della recidiva; ma è altrettanto vero che così la recidiva reiterata non incide automaticamente due volte nella determinazione dell’aumento di pena. Se, infatti, per l’art. 99 comma 4 c.p. l’inasprimento sanzionatorio è fisso, per l’ulteriore aggravio di pena ex art. 81 c.p. è stabilito soltanto un limite massimo, sicchè trova ampio spazio il potere discrezionale del giudice nel determinare tale ultimo appesantimento, calibrandolo in relazione al singolo caso concreto.
La novella del 2005 ha previsto poi un opportuno coordinamento fra il terzo ed il quarto comma dell’art. 81 c.p. impedendo, con l’indiretto richiamo agli artt. 71 e segg. c.p., che l’aumento di pena, anche per il recidivo reiterato , determini un risultato peggiorativo per il reo rispetto a quello che sarebbe scaturito dal semplice cumulo materiale delle pene. In definitiva, l’obbligo dell’aumento della quantità di pena, che non può essere mai inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, deve dal giudice essere reso compatibile soprattutto con il dettato dell’art. 73 c.p., il quale fissa il limite materiale delle pene detentive.
Altri effetti si hanno con riguardo alla legge sull’ordinamento penitenziario ed all’art. 656 c.p.p.
Invero, l’art. 7 della legge di riforma del 2005, con i suoi sette commi, rappresenta la disposizione che maggiormente condiziona la fase esecutiva della pena, caratterizzandosi per il ragguardevole inasprimento per l’ammissibilità del condannato recidivo reiterato a quasi tutte le misure alternative alla detenzione (permessi premio ex art. 30 quater legge n. 354/1975; detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma primo e primo bis; semilibertà ex art. 50 bis; limitazione della concessione di detti benefici e dell’affidamento in prova ex art. 58 quater co. 7 bis; nonché la limitazione della sospensione dell’esecuzione della pena e l’affidamento in prova per i tossicodipendenti ex art. 94 bis D.P.R. 309/90.
Con riferimento alla fase esecutiva rileva la previsione ex art. 656 comma nono c.p.p , secondo la quale non può essere disposta la sospensione dell’ordine di esecuzione per il condannato recidivo reiterato. La Cassazione secondo un orientamento oramai costante ha chiarito dapprima con sentenza n. 42306/06 cui ne sono seguite numerose altre in senso conforme che “ la disposizione è norma processuale e come tale è immediatamente applicabile anche alle sentenze pregresse; parimenti il richiamo alla recidiva deve essere inteso come richiamo all’art. 99 comma IV c.p. attualmente vigente, in quanto l’istituto della recidiva ha natura mista e non produce solo effetti sostanziali, per i quali vige il principio di irretroattività, ma anche effetti processuali, come l’ostatività ai benefici penitenziari ed alla sospensione dell’esecuzione sempre che la recidiva sia stata effettivamente valutata in quanto circostanza aggravante soggettiva ed abbia perciò prodotto conseguenze concrete sulla pena irrogata.
L’esperienza in cui è maturata la riforma della recidiva appare come radicalmente diversa da quella che diede origine nel 1974 all’abrogazione dell’art. 100 c.p. ed alla previsione della recidiva “facoltativa”, accanto alla quale erano mantenute ipotesi di recidiva obbligatoria: oggi è la società del rischio, quale la ha definita Hans Beck, a dominare l’orizzonte del giurista nell’epoca della seconda modernità e della globalizzazione. Anche il diritto penale deve, quindi, avere un sussulto per adeguarsi alle richieste di quella società che esige di essere meglio tutelata dalla invadenza della criminalità. Sarà poi l’applicazione delle nuove norme a sollevare problematiche nascoste o accantonate dal legislatore, con le implicazioni di sistema che esse possono comportare. Ma questa è una missione che spetta agli interpreti ed in definitiva ai giudici ed agli avvocati, i quali tutti, per ricordare un paragone caro a Piero Calamandrei, sono i genitori chiamati ad educare in modo corretto e sensibile i propri figli, cioè le norme introdotte progressivamente nella tessitura dell’ordinamento giuridico, coordinandole fra loro e cogliendo in esse quanto di potenzialmente pregevole vi può essere.

Francesco Mazza
(Avvocato del Foro di Roma – Professore a c. nell’Università degli Studi di Cassino)

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.