Commette il reato di accesso abusivo a sistema informatico colui il quale, pur avendo ricevuto legittimamente la password, accede nella pagina Facebook della propria moglie al fine di ottenere un risultato in contrasto con la volontà del titolare. In tale caso, invero, si è in presenza di una forzatura dei limiti dell’autorizzazione concessa dal titolare del domicilio informatico da parte del soggetto autorizzato ad accedervi.
(Cass. Sezione V Penale, 2 ottobre 2018 – 22 gennaio 2019, n. 2905)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FUMO Maurizio – Presidente –
Dott. MORELLI Francesca – Consigliere –
Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere –
Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –
Dott. BORRELLI Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
OMISSIS;
avverso la sentenza del 13/09/2017 della CORTE APPELLO di PALERMO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere PAOLA BORRELLI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CESQUI Elisabetta, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento della somma di 1.000 Euro a favore della Cassa delle ammende;
udito il difensore per la parte civile, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese.
1. Con sentenza del 13 settembre 2017, la Corte di appello di Palermo ha confermato quella emessa dal Giudice monocratico del Tribunale della stessa città nei confronti di OMISSID, condannato per il reato di cui all’art. 615 ter c.p., commesso accedendo al profilo Facebook della moglie grazie al nome utente ed alla password utilizzati da quest’ultima, a lui noti da prima che la loro relazione si incrinasse; l’imputato – secondo le sentenze di merito – aveva così potuto fotografare una chat intrattenuta dalla moglie con un altro uomo e poi cambiare la password, sì da impedire alla persona offesa di accedere al social network.
2. La sentenza della Corte palermitana è stata impugnata per cassazione dal difensore dell’imputato, che ha articolato due motivi di ricorso.
2.1. Il primo verte sul vizio di motivazione che caratterizzerebbe la sentenza perchè non si era data risposta ai motivi di appello. Il ricorrente rimarca, in particolare, che il primo dei riscontri alle dichiarazioni della persona offesa – la produzione, nel giudizio di separazione, delle schermate riproducenti le chat con un altro uomo – non era tale, dal momento che la difesa dell’imputato aveva in entrambi gradi segnalato che la scoperta della conversazione era avvenuta per caso, allorchè il ricorrente si era collegato da remoto al suo PC tramite il cellulare quando era fuori casa ed aveva potuto vedere sul desktop del computer la conversazione in atto. Il secondo riscontro – l’accertamento del collegamento IP dall’utenza del padre dell’imputato – era equivoco perchè non si era accertato l’apparecchio grazie al quale era stato effettuato il collegamento nè chi lo avesse attivato, mentre era stata negativa la geolocalizzazione del cellulare dell’imputato nel momento dell’accesso abusivo.
2.2. Il secondo motivo fonda sulla violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte di merito circa la valutazione della prova, perchè non aveva osservato le regole logiche e giuridiche del ragionamento indiziario; la persona offesa si era espressa in termini di mero sospetto circa l’attribuibilità del fatto all’imputato, dicendo che tale sospetto era stato confermato dalla polizia giudiziaria. Chiunque – sostiene il ricorrente – poteva collegarsi alla rete wi-fi del padre dell’imputato ed accedere al profilo Facebook della persona offesa, presidiato da codici di accesso piuttosto comuni; peraltro poteva dubitarsi dell’operatività della norma di cui all’art. 615 ter c.p., perchè la password era stata comunicata all’imputato.
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il ricorrente tende a fornire una propria lettura degli accadimenti, pretendendo di valutare, o rivalutare, gli elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni in contrasto con quelle della Corte di appello, operazione non consentita nel giudizio di legittimità. Come si legge nelle motivazioni di Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651, infatti, tale impostazione si risolve nella pretesa di ottenere dinanzi alla Corte di cassazione un giudizio di fatto che non le compete, dal momento che esula dai poteri del Giudice di legittimità quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.
Secondo un’impostazione pertanto non corretta, i motivi proposti non fanno altro che postulare, del tutto assertivamente, l’esistenza di una diversa realtà fattuale – si pensi al collegamento da remoto al computer di casa – ovvero tendono a reinterpretare le acquisizioni probatorie mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito.
Di contro la Corte territoriale ha fornito una motivazione che sfugge alle censure di parte nè palesa errori di diritto, dal momento che è stata correttamente e razionalmente valutata la convergenza tra una serie di elementi: il dato incontestato – riferito dalla parte lesa circa la conoscenza che il prevenuto aveva delle credenziali di accesso a Facebook, la resa dei conti avvenuta mostrando alla moglie, quella mattina stessa, proprio la chat “incriminata” (e poi producendola nel giudizio di separazione) nonchè la circostanza obiettiva della connessione servita per modificare la password, avvenuta dalla casa del padre dell’imputato. Nel contempo, i giudici di appello hanno spiegato altrettanto razionalmente la neutralità del mancato accertamento del posizionamento del cellulare dell’imputato in quella zona e valorizzato la compatibilità logica della condotta di cui l’imputato è accusato con il movente di gelosia che lo animava.
1.2. Va altresì affrontato un tema che il ricorrente ha posto, vale a dire quello della valenza a discarico dell’avvenuta comunicazione delle credenziali all’imputato da parte della moglie prima del lacerarsi della loro relazione, segnalando peraltro che non risulta chiaramente dalla sentenza impugnata quale sia stato il veicolo di conoscenza (se le credenziali non le avesse comunicate la OMISSIS, evidentemente sarebbe esclusa in radice la possibilità di discutere di un’eventuale autorizzazione, ancorchè implicita, all’accesso).
A prescindere da quest’ultima riflessione, giova comunque osservare che, come già affermato da questa sezione in un caso analogo al presente (Sez. 5, n. 52572 del 06/06/2017, P.F., non massimata), la circostanza che il ricorrente fosse a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornire, così, in passato, un’implicita autorizzazione all’accesso – non escluderebbe comunque il carattere abusivo degli accessi sub iudice. Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi. Tale interpretazione è confortata dalla recente Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061, che sia pure rispetto ad una situazione diversa – ha valorizzato contra reo la forzatura dei limiti dell’autorizzazione concessa dal titolare del domicilio informatico da parte di soggetto autorizzato ad accedervi.
2. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile; ne consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
Il ricorrente deve altresì essere condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado, che si liquidano in complessivi Euro 2932,83 oltre accessori di legge, disponendone il pagamento a favore dello Stato D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 110, comma 3, giacchè risulta che la parte civile è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2000,00 a favore della Cassa delle ammende, nonchè al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 2932,83 oltre accessori di legge, disponendone il pagamento a favore dello Stato.

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