Il riparto di potestà tra g.o. e giudice militare attiene alla giurisdizione e non alla competenza, in conformità all’art. 103, comma 3, cost., con la conseguenza che, in caso di connessione di reati, la “potestas iudicandi” spetta al g.o. anche per il reato militare solo se il reato comune sia da considerarsi più grave secondo i criteri di cui all’art. 16, comma 3, c.p.p. (Nella specie, la Corte ha escluso la giurisdizione del g.o. con riferimento al delitto di collusione previsto dall’art. 3 legge 9 dicembre 1941 n. 1383, sebbene si procedesse anche per il reato di falso, rilevando che, mentre per quest’ultimo non era contestata l’aggravante della falsificazione di un atto facente fede fino a querela di falso relativamente al primo la contestazione aveva ad oggetto anche l’aggravante dell’essere il militare rivestito di un comando previsto dall’art. 47 n. 2 c.p.m.p.).

(Cass. Sezione I Penale, 28 settembre 2012, n. 44514)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BARDOVAGNI Paolo         –  Presidente   –
Dott. VECCHIO    Massimo       –  Consigliere  –
Dott. ROMBOLA’   Marcello      –  Consigliere  –
Dott. TARDIO     Angela        –  Consigliere  –
Dott. BONITO     Francesc –  rel. Consigliere  –
ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:
1.(OMISSIS);
2 (OMISSIS);
avverso  la sentenza n. 74/2010 CORTE MILITARE APPELLO di  ROMA,  del 15/06/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 28/09/2012 la  relazione  fatta  dal
Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA SILVIO BONITO;
Udito  il  Procuratore Generale in persona del Dott. Flamini  che  ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito il difensore Avv. Corsino Mario.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 giugno 2011 la Corte militare di appello confermava la condanna ad anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno inflitta a carico di N.G. e V.R., giudicati colpevoli, il primo nella qualità di luogotenente ed il secondo quale brigadiere della G.d.F, in servizio entrambi presso il nucleo della polizia tributaria di Caserta, dei reati di disobbedienza aggravata in concorso tra loro (art. 110 c.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2 e art. 173 c.p.m.p.) e di collusione aggravata sempre in concorso tra loro (art. 110 c.p., art. 47, n. 2 e L. 9 dicembre 1941, n. 1383, art. 3 in relazione agli artt. 215 e 219 c.p.m.p.).
2. I fatti di causa risalgono al (OMISSIS), epoca in cui il comando del nucleo di polizia tributaria di Caserta prese l’iniziativa di un controllo sulle società operanti nel settore del trasporto di persone al fine di accertare eventuali evasioni fiscali e previdenziali. L’operazione venne tenuta sotto stretta segretezza anche nell’ambito del nucleo e soltanto la mattina del 9 novembre agli operatori vennero consegnate buste chiuse contenenti le consegne da eseguire presso i vari obbiettivi ivi indicati. Agli imputati venne fatta consegna di eseguire gli accertamenti di ufficio presso la ditta Abelia Viaggi di M.A. con sede in (OMISSIS).
Recatisi sul posto gli imputati avvertirono telefonicamente il ten. S. che l’esercizio commerciale risultava chiuso, di guisa che gli stessi vennero comandati dal magg. D.C., comandante del nucleo di polizia tributaria operante, ai quali avevano ribadito il dato della chiusura dell’agenzia, di raggiungere i colleghi in attività a (OMISSIS).
Nel relazionare le loro operazioni, gli imputati diedero atto di essersi recati presso i locali della ditta Abelia Viaggi, di averli trovati chiusi, di aver comunque accertato che trattatavasi di agenzia viaggi estranea ad attività di trasporto di persone.
Analoghe sintetiche informazioni i prevenuti affidavano ad una seconda relazione richiesta dai superiori gerarchici attesa la sinteticità della prima.
Veniva però accertato in seguito ad indagini eseguite dall’autorità giudiziaria ordinaria, che tra il N. ed il M., persona interessata alle verifiche, in costanza di esse erano intercorsi contatti telefonici e gli imputati ammettevano inoltre che, in realtà, avevano avuto accesso ai locali della ditta Abelia, ove avevano interloquito con un addetto senza però verbalizzare alcuna operazione, neppure quella della identificazione dell’addetto. Sulla base degli accertamenti eseguiti gli imputati venivano rinviati a giudizio e poi condannati sia in primo che in secondo grado perchè giudicati colpevoli dei reati rubricati.
3. Ricorrono avverso la sentenza di appello gli imputati, assistiti dal comune difensore di fiducia il quale, nel loro interesse, con un unico atto difensivo, sviluppa quattro motivi di impugnazione.
3.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente violazione dell’art. 13 c.p.p., comma 2, in particolare osservando:
- all’udienza del 15.6.2011 si dava atto che la Procura della repubblica di Santa Maria Capua Vetere, il precedente 10.3.2011, aveva emesso per entrambi gli imputati l’avviso si cui all’art. 415 c.p.p. in relazione ai reati di cui agli artt. 323, 326, 328, 476 e 479 c.p., avviso poi notificato il 30.3 ed il 5.5.2011;
- la corte militare, preso atto di quanto sopra, ha ritenuto di mantenere la propria competenza a giudicare dappoichè considerato più grave il reato militare;
- in tal guisa la corte stessa ha violato l’art. 13 c.p.p., comma 2 e art. 16 c.p.p. giacchè nella fattispecie il reato più grave, ai sensi del richiamato art. 16 c.p.p., è quello di cui agli artt. 479 e 476 c.p., che prevede, a parità di massimo edittale, una pena minima di anni tre di reclusione superiore a quella prevista dal reato di cui alla L. 9 dicembre 1941, n. 1383, art. 3;
- di qui l’incompetenza della corte militare a conoscere della vicenda perchè competente il giudice ordinario.
3.2 Col secondo motivo di ricorso deduce la difesa ricorrente illogicità e contraddittorietà della motivazione, in particolare osservando:
- in relazione al reato di violata consegna i giudici di merito non hanno adeguatamente considerato il rilievo difensivo volto a dimostrare che l’ordine di servizio del ten. S., per l’assenza di chiarezza nel suo contenuto precettivo, aveva creato problemi di interpretazione, tenuto conto, altresì, che l’operazione era stata mantenuta nella massima segretezza e non era stata preceduta, come da prassi, da una riunione preparatoria ed illustrativa;
- tanto per affermare che l’incertezza della consegna data rende non configurabile la sua violazione;
- gli imputati inoltre furono gli unici ad imbattersi in una agenzia che non organizzava ovvero eseguiva trasporto di persone, ma vendeva proposte di viaggi, mentre il controllo era stato programmato soltanto per le prime;
- nella motivazione, inoltre, si afferma, travisando la realtà, che i militari imputati comunicarono la falsa notizia che l’agenzia Abelia era chiusa, giacchè al momento di tale informazione, avvenuta attorno alle otto del mattino, in realtà l’agenzia era chiusa;
- per chiarire tale punto controverso della sentenza e delle stesse acquisizioni processuali, attesa la non corrispondenza tra quanto riferito dal N. e quanto riferito invece dal suo superiore, occorreva acquisire i tabulati telefonici;
- i giudici territoriali hanno invece ritenuto di dare credito alle dichiarazioni del magg. D.C. e del ten. S., i quali quel mattino ricevettero decine e decine di telefonate e i cui ricordi non possono non essere caratterizzati da margini decisivi di incertezza;
- d’altra parte nella relazione stesa dagli imputati il 9.11.2006 viene esplicitamente chiarito che fu effettuato il controllo presso l’agenzia Abelia con esito negativo, circostanza questa che contrasta con i ricordi dei due ufficiali, ricordo fondante del giudizio di colpevolezza;
- in realtà il N., dopo aver comunicato di aver trovato l’agenzia chiusa, ne attese l’apertura, eseguì l’accesso, verificò che si trattava di obbiettivo non oggetto della programmata verifica perchè agenzia viaggi e non agenzia di trasporti e stese la sintetica relazione;
- quanto poi al reato di collusione, nella fattispecie non risulta provato alcun patto illecito tra gli imputati ed il privato;
- i giudici di merito infatti indicano quale prova del reato in parola la telefonata del 9.11.2006 tra il m.llo N. ed il M., interessato al controllo, il cui contenuto, peraltro, è stato dichiarato inutilizzabile dal Tribunale;
- eppure sul punto era stato difensivamente rilevato che l’operazione era stata programmata nell’assoluta segretezza e che nessuno, neppure gli ufficiali sottoposti al magg. D.C., ne erano a conoscenza, di guisa che non è dato comprendere quale informazione potesse dare l’imputato al M. e quale preventivo accordo tra i due potesse intervenire;
- illegittimamente la corte di secondo grado ha superato il rilievo difensivo ritenendo concretizzato il reato con la sola telefonata pur se non conosciuto il contenuto.
3.3 Col terzo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente violazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2, in particolare osservando:
- agli imputati venne richiesto dai superiori una relazione integrativa di quella del 9.11.2006 perchè a loro conoscenza le telefonate registrate e trascritte quella stessa mattina, trascrizioni indizianti che avrebbero dovuto indurre alla preventiva informazione degli imputati ai sensi dell’art. 63 c.p.p., comma 2, sebbene non ancora iscritti gli stessi nel relativo registro della Procura della repubblica;
- detta relazione poteva tradursi in danno per i redattori ed infatti la stessa risulta ampiamente utilizzata nella motivazione di condanna sul rilievo che si tratterebbe di atto di ufficio formato prima ed al di fuori del procedimento.
3.4 Col quarto ed ultimo motivo di censura denuncia la difesa ricorrente la mancata assunzione di una prova decisiva ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in particolare osservando:
- nel corso del giudizio di primo grado era stata accertata una decisiva discrepanza tra le dichiarazioni rese dal ten. S., secondo cui il N. gli riferì la circostanza che l’agenzia era chiusa verso le ore 9,00 del mattino, e quelle dell’imputato, m.llo N., secondo il quale la telefonata era stata fatta alle 7.30 circa;
- di qui la esigenza istruttoria di acquisire i tabulati telefonici delle telefonate eseguite dai predetti interessati, al fine di provare con certezza se le dichiarazioni del N. in ordine alla verificata chiusura dell’agenzia Abelia fossero o meno veritiere;
- a maggior ragione si imponeva l’invocata acquisizione in considerazione della circostanza che nella relazione sintetica del M.llo N., la prima delle due redatte, si dava atto di un controllo effettuato, con ciò riscontrandosi la versione difensiva e non già quella accusatoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. L’eccezione processuale affidata al primo motivo di ricorso è infondata.
Va innanzitutto precisato che la questione proposta non attiene alla competenza del giudice ordinario bensì alla sua potestas iudicandi, giacchè il riparto di potestà tra giudice ordinario ed autorità giudiziaria militare attiene alla giurisdizione, in conformità al dettato costituzionale (art. 103 Cost., comma 3) ed alla connessa disciplina codistica di cui all’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. b), in forza della quale (disciplina) la corte di legittimità pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.
La regolamentazione della fattispecie è pertanto affidata alla disciplina generale di cui all’art. 20 c.p.p., il quale statuisce che il difetto di giurisdizione è rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del processo, ed alla individuazione del reato più grave tra quelli da giudicare, l’uno rientrante nella giurisdizione militare e l’altro in quella ordinaria (art. 13 c.p.p., comma 2).
Tanto premesso quanto ai principi, osserva la Corte che tra i reati contestati e giudicati, quello di collusione contemplato dall’ordinamento penale militare deve ritenersi il più grave, in quanto sanzionato edittalmente con la pena da due a dieci anni di reclusione, a fronte di quello di falso (artt. 479 e 476 c.p.), per il quale procede il giudice ordinario, sanzionato con la pena da uno a sei anni di reclusione. E’ pur vero che detto reato è sanzionato con la pena da tre a dieci anni di reclusione se aggravato ai sensi dell’art. 476 c.p., comma 2 ma, come correttamente rilevato dal giudice territoriale, nel caso in esame non risulta affatto contestata l’aggravante citata, mentre il reato militare è stato contestato con l’aggravante di cui all’art. 47 c.p.m.p., n. 2 la quale deve essere considerata nel computo della sanzione e comporta un incremento del massimo edittale che occorre conteggiare ai fini della valutazione giudiziale della gravità di cui si discetta.
2. La doglianza di cui al secondo motivo di impugnazione è invece fondata nei limiti che si passa ad esporre.
La censura in esame, come innanzi evidenziato, critica la motivazione articolata dalla corte territoriale in relazione ad entrambi i reati per i quali gli imputati sono stati condannati, il reato di disobbedienza aggravata e quello di collusione aggravata. Orbene, l’esame dell’argomentare decisionale convince della sua esaustività con riferimento soltanto alla prima delle contestazioni richiamate.
2.1 Ed invero, quanto alla condanna per il reato di disobbedienza aggravata giova qui ribadire che la funzione dell’indagine di legittimità sulla motivazione non è quella di sindacare l’intrinseca attendibilità dei risultati dell’interpretazione delle prove e di attingere il merito dell’analisi ricostruttiva dei fatti, bensì quella, del tutto diversa, di accertare se gli elementi probatori posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate, sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte, verificando la congruenza dei passaggi logici. Ne consegue che, ad una logica valutazione dei fatti operata dal giudice territoriale, non può quello di legittimità opporne un’altra, ancorchè altrettanto logica (Cass. 5.12.02 Schiavone; Cass. 6.05.03 Curcillo). Nel caso in esame palese è, si ribadisce, con riferimento alla motivazione di condanna per il reato di disobbedienza aggravata, la natura di merito delle argomentazioni difensive, giacchè volte le medesime, a fronte di un’ampia e lodevolmente esaustiva motivazione del giudice territoriale, a differentemente valutare gli elementi di prova puntualmente da esso richiamati e valorizzati, onde poi accreditare uno svolgimento della vicenda del tutto alternativo a quello logicamente accreditato con la sentenza impugnata.
Hanno infatti i giudici territoriali evidenziato la ricorrenza del reato in parola dappoichè i due sottufficiali, in violazione delle direttive ricevute, omisero di identificare il personale della ditta Abelia Viaggi e di eseguire presso di essa ogni attività istituzionale dovuta in occasione di accertamenti di quella natura, ambiguamente relazionando poi in ordine ad un esito negativo dell’accertamento dopo aver superiormente riferito che l’agenzia era stata trovata chiusa.
Il giudice di secondo grado ha altresì con logico argomentare coerentemente confutato le tesi difensive, rilevando l’incongruenza della ricostruzione di parte in ordine alla veridicità di quanto comunicato ai superiori telefonicamente circa la chiusura dell’esercizio, giacchè il N. ebbe l’ordine dal superiore di abbandonare l’agenzia trovata chiusa e di recarsi a (OMISSIS) in rinforzo delle operazioni colà in corso, mentre in realtà il predetto ebbe accesso agli uffici dell’agenzia, come riconosciuto da entrambi gli imputati e come pacificamente accertato nel processo. Di qui il palese e cosciente travisamento dei fatti comunicati al superiore gerarchico in violazione delle consegne ricevute. Non solo, i giudici di merito hanno altresì evidenziato che gli imputati mantennero il loro reticente atteggiamento in ben due relazioni di servizio, quella del 9.11 e quella del 30.11.2006, del tutto logicamente giudicate, con giudizio in fatto insindacabile in questa sede di legittimità, come reticenti ed ambigue.
2.2 A diverse conclusioni induce, viceversa, l’esame della motivazione di accusa sviluppata dai giudici territoriali in relazione al reato di collusione aggravata.
A tal fine la corte di secondo grado ha valorizzato sia le false informative ai superiori, sia le tre telefonate indirizzate dal N. al M., titolare della società sottoposta a controllo, per avvisarlo delle operazioni in corso, sia l’omessa verbalizzazione delle operazioni da eseguirsi alla presenza del dipendente della agenzia Abelia.
Hanno ancora rilevato i giudicanti territoriali sul punto l’incongruenza della tesi difensiva secondo cui il N. telefonò al M. per avere informazioni sulla reale attività svolta dall’Agenzia Abelia, considerato che le telefonate furono tre e che il N. al momento di chiamare il M. stesso ignorava del tutto quali fossero le operazioni in corso, circostanza che priverebbe di rilievo la tesi difensiva che non vi fu collusione dappoichè al momento della telefonata al M. la sede della sua società in (OMISSIS) era già sottoposta alle operazioni di verifica. Come sottolineato nelle sentenze di condanna, siffatta circostanza era ignorata dal N. al momento, quanto meno, della sua prima telefonata.
L’argomentare della corte militare, ad avviso del Collegio, non dimostra in termini soddisfacenti la corrispondenza della fattispecie concretamente accertata con l’ipotesi delittuosa contestata. Ed invero il reato di collusione di cui alla L. 9 dicembre 1941, n. 1383, testualmente è in tal guisa descritto: “Il militare della Regia guardia di finanza che commette una violazione delle leggi finanziarie, costituente delitto, o collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 c.p.m.p., ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali”.
Tra le ipotesi tipizzate dalla norma incriminatrice, di interesse nel presente processo è quella che da rilievo penale alla condotta del militare della guardia di finanza il quale “collude con estranei per frodare la finanza “.
Perchè sussista pertanto il reato occorre un accordo tra il militare appartenente alla Guardia di finanza e l’estraneo, accordo il cui oggetto sia costituito dalla “frode alla finanza”, la quale, secondo accreditata lezione ermeneutica di questa Corte, può consistere nell’indicazione o apprestamento di qualsiasi espediente o mezzo fraudolento dotato di potenzialità lesiva dell’interesse alla percezione dell’entrata tributaria (Cass., Sez. 1, 06/06/2007, n. 25819; Cass., 15/12/2005, n. 1303).
Tanto premesso non può non rilevarsi che nel caso dedotto all’esame della Corte la ricorrenza di tre telefonate il cui contenuto è rimasto sconosciuto non appare circostanza di fatto idonea sostenere probatoriamente nè un accordo tra il N. ed il M., nè tampoco – e tale rilievo si appalesa decisivo – l’oggetto dell’accordo e cioè la frode che gli interlocutori intendevano consumare in contrasto con gli interessi pubblici tutelati dall’azione di istituto del Corpo.
Nè in tale direzione appaiono significativi i comportamenti ambigui assunti dagli imputati, e cioè la mancata verbalizzazione dell’accesso all’agenzia Abelia e l’asetticità dei rapporti successivi, sia per l’incertezza nella quale è rimasta la circostanza del momento in cui i prevenuti dettero avviso ai superiori che l’agenzia risultava chiusa rispetto alla prima telefonata al M., sia perchè non deducibile da essi alcun accordo collusivo volto ad una frode rimasta a tutt’oggi senza una precisa determinazione di contenuti. Al riguardo, pertanto, ricorre una insufficienza motivazionale giustificativa dell’annullamento parziale della sentenza impugnata, con rinvio a giudice territoriale affinchè, in piena libertà di giudizio, riconsideri il quadro probatorio acquisito al processo coerentemente valutandolo ai fini decisionali.
3. Anche l’eccezione processuale di cui al terzo motivo di censura è manifestamente infondata.
Ed invero nella fattispecie non ricorre per nulla l’ipotesi di cui all’art. 63 c.p.p., comma 2, giacchè la richiesta di relazione nell’ambito di un rapporto di ufficio non integra richiesta di dichiarazioni davanti alla p.g.. La redazione di relazione di servizio infatti rientra nell’ordinario svolgimento delle funzioni istituzionali svolte dagli imputati. Non solo, la norma richiamata trova applicazione allorchè una persona non imputata compaia davanti all’autorità giudiziaria ovvero a quella di polizia e quando dalle dichiarazioni in quel contesto rese emergano indizi di reità. Nel caso in esame non v’era comparizione personale della tipologia detta e non v’erano dichiarazioni indizianti riferibili agli imputati rese in quel contesto.
4. Anche la doglianza di cui al quarto motivo di impugnazione, infine, è manifestamente infondata sia nel suo profilo strettamente processuale che in quello di carattere sostanziale. Ed invero, quanto al primo aspetto, secondo costante lezione ermeneutica di questa corte, il motivo di ricorso per cassazione consistente nella deduzione di mancata assunzione di una prova decisiva può essere proposto solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495 cod. proc, pen., comma 2, sicchè esso non può essere validamente invocato quando il mezzo di prova, sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen., non sia stato dal giudice ritenuto necessario ai fini della decisione (Cass., Sez. 1, 15/04/2010, n. 16772).
Nel caso in esame, per stessa ammissione del deducente, l’acquisizione dei tabulati è stata richiesta nel corso del dibattimento di prime cure e tale richiesta è stata considerata dal tribunale non necessaria ai fini della decisione.
L’eccezione, inoltre, non ha pregio, come innanzi anticipato, neppure nei suoi profili sostanziali.
Come è noto, è prova decisiva, la cui mancata assunzione è deducibile come motivo di ricorso per cassazione, solo quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante, nel senso che, ove esperita, avrebbe determinato una diversa decisione (Cass., Sez. 3, 15/06/2010, n. 27581; Cass., Sez. 6, 25/03/2010, n. 14916).
Tanto premesso sul piano teorico, osserva quanto al caso in esame il collegio che l’eventuale acquisizione dei tabulati, non avrebbe in alcun modo dimostrato l’assunto difensivo, ma, esclusivamente, che, eventualmente, il N. ebbe a telefonare una prima volta al ten. S., nulla potendo viceversa provare i tabulati in ordine al contenuto della telefonata. Di qui la non decisività della prova.

P.Q.M.

La Corte, annulla la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta collusione e rinvia per nuovo giudizio sul capo ad altra sezione della Corte militare di appello. Rigetta il ricorso nel resto.