Il militare che distrugge anziché sequestrare la sostanza stupafecente rinvenuta nel corso di un controllo commette peculato, poiché la dispersione della sostanza (nella fattispecie operata mediate il lancio in un tombino) consiste in un’attività uti dominus che comporta un’interversione del titolo del possesso della droga, cosicchè il reato contestato deve ritenersi integrato.
(Cass. Penale Sez. I, sentenza 24 aprile – 15 maggio 2014, n. 20322)

Corte Suprema di Cassazione
Sezione Prima Penale
Sentenza 24 aprile – 15 maggio 2014, n. 20322
[OMISSIS]
1. Con sentenza del 20.3.2013, la Corte militare d’appello riformava integralmente la sentenza 5.7.2012 del gip del Tribunale militare di Verona che aveva assolto [OMISSIS] dal reato di peculato militare, condannandolo per tale reato alla pena di otto mesi di reclusione.
Il fatto non era in contestazione, nel senso che era pacifico che il [OMISSIS] durante un servizio di controllo in qualità di militare della guardia di finanza, aveva rinvenuto all’interno di un’auto una minima quantità di hashish che aveva preso e che aveva poi gettato in un tombino, mandando via la persona (tale [OMISSIS]) che la deteneva a bordo dell’auto.
I fatti erano comprovati non solo dalle dichiarazioni dell’altro componente la pattuglia ma dalle stesse rappresentazioni del soggetto controllato e dal fatto che all’interno del tombino venne rinvenuta la minima quantità di sostanza che era stata gettata.
Il primo giudice aveva opinato nel senso che difettava un elemento fondamentale per poter ravvisare il peculato, essendo carente il momento appropriativo del bene posseduto per motivi di ufficio.
Sull’appello del PM la Corte militare giungeva a valutazione difforme, rilevando che nella fattispecie sussisteva sia la qualità personale propria del soggetto agente che il profitto; che al momento in cui la [OMISSIS] passò lo stupefacente al militare [OMISSIS], che lo consegnò a sua volta al capopattuglia [OMISSIS], costui aveva un obbligo di custodia e sorveglianza sulla sostanza illecitamente detenuta dalla persona controllata; il militare avrebbe dovuto sequestrare lo stupefacente per consentirne l’analisi chimica e quindi dare corso alla segnalazione al Prefetto; con la mera apprensione della sostanza il finanziere era entrato nella esclusiva disponibilità della modesta quantità di hashish, con gli obblighi conseguenti.
La dispersione operata nel tombino consisteva in un’attività uti dominus che comportava un’interversione del titolo del possesso della droga, cosicchè il reato contestato doveva ritenersi integrato.
Risultava del tutto indifferente, a parere della Corte, che il [OMISSIS] avesse usato la signoria sul bene non già per appropriarsene ma per distruggerlo, espressione estrema questa del potere di signoria sulla cosa.
Veniva aggiunto che la condotta risultava essere stata tenuta a vantaggio della [OMISSIS], che fu avvantaggiata dalla mancata segnalazione al Prefetto competente territorialmente, non foss’altro per avere evitato la sospensione della patente di guida.
2. Avverso tale decisione, interponeva ricorso per cassazione il[OMISSIS]  pel tramite del difensore, per dedurre tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo viene dedotta nullità della sentenza per erronea applicazione dell’art. 47 c.p.m.p., n. 2 e L. 9 dicembre 1941, n. 1383, art. 3: quest’ultima normativa nacque con l’intento di configurare gli illeciti speciali del finanziere e adeguarli ai nuovi c.p.m.p., cosicchè il peculato del militare della guardia di finanza è stato definito come “appropriazione o distrazione a profitto proprio o altrui di valori o di generi di cui il finanziere abbia, per ragioni del suo ufficio o servizio, l’amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza”.
Ciò detto, secondo la difesa oggetto del peculato non è qualsiasi cosa mobile, ma solo generi e valori oggetto di interesse della guardia di finanza e l’economia nazionale.
A differenza del peculato previsto dagli art. 314 cod. pen. o art. 215 c.p.m.p., i beni alla cui tutela il finanziere è preposto, o che si vogliono tutelare, non sono beni che appartengono all’amministrazione, ma sono beni che l’amministrazione prende in considerazione a fini fiscali.
Il modesto quantitativo di hashish rinvenuto non poteva rientrare nella categoria dei beni e valori indicata dalla norma speciale.
Con un secondo motivo si sosteneva che erroneamente era stata ritenuta l’appropriazione della sostanza ancorchè la stessa fosse stata distrutta: viene contestato il riferimento all’arresto di questa Corte di legittimità (sent. 12661/2010) poichè la fattispecie trattata era del tutto diversa, avendosi riguardo a peculato ex art. 314 cod. pen.; viene rilevato che non vi fu la dovuta custodia del bene, cosicchè al più si potrebbe parlare di assenza di qualsiasi attività preordinata ad assumere la custodia di quanto sequestrato.
La condotta di distruzione sarebbe condotta opposta alla appropriazione; il profitto non sussisterebbe, poichè l’omissione degli incombenti non poteva costituire elemento di fattispecie del reato in contestazione, quanto piuttosto azione autonoma rientrante nella fattispecie dell’omissione in atti d’ufficio (art. 328 cod. pen.), reato del quale l’imputato dovrebbe rispondere avanti l’A.G. ordinaria. Su questo rilievo della difesa opposto in appello, mancherebbe la motivazione.
Con un terzo motivo veniva dedotta ancora mancanza di motivazione quanto al fatto che, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 215 c.p.m.p., le condotte dei militari di distrazione non sarebbero punibili.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Il terzo motivo di ricorso non ha pregio, poichè le condotte appropriative del militare che agisce al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa (c.d. peculato d’uso) e dopo la restituisca, vanno punite in base alla norma incriminatrice del peculato comune e ciò in quanto la corrispondente norma del cod. pen. militare di pace è stata dichiarata incostituzionale (con sentenza Corte Cost. 286 del 2008), con la conseguenza che, integrando un reato comune, esse sono di competenza del giudice ordinario e non di quello militare, il che smentisce l’assunto difensivo secondo cui non sarebbero più punibili le condotte appropriative.
Deve essere peraltro subito precisato che nel caso di specie non si ha riguardo ad un peculato d’uso, ma ad una condotta di appropriazione piena a cui ebbe a seguire la distruzione del bene, di talchè l’argomentazione non può essere ritenuta di pertinenza.
Anche i motivi 1 e 2 sono infondati.
La condotta pacificamente tenuta dal [OMISSIS] non integra solo un’omissione di atti di ufficio (omesso verbale di sequestro del quantitativo di stupefacente), ma una violazione a più ampio spettro che assorbe l’omissione, per il semplice fatto che il non aver compiuto l’atto obbligatorio dell’ufficio valse a celare un altro segmento di condotta, molto più grave, consistito nella apprensione dello stupefacente uti dominus e nella successiva distruzione dello stesso, in ispregio alle regole più elementari di comportamento che deve tenere un operatore di polizia giudiziaria (tanto da aver portato l’altro componente della pattuglia a farne immediata segnalazione).
Dunque la condotta tenuta dal [OMISSIS] non integrò la sola omissione in atti d’ufficio, ma una fattispecie di reato ben più grave, il che spiega la ragione per la quale la Corte militare una volta ravvisata la configurazione del reato di peculato, non si è dilungata a motivare sulla non sussistenza del reato che secondo la difesa andava ritenuto.
E’ stata corretta la valutazione dei giudici a quibus che hanno ritenuto integrato il più grave reato in contestazione: questa Corte di legittimità ha avuto modo di affermare con il recente arresto, richiamato nella sentenza impugnata (Sez. 6, 25.2.2010, n. 12661), che l’immediata dispersione della sostanza, senza che si possa parlare di un apprezzabile momento di autonomo possesso, e la destinazione normativa della sostanza, comunque volta alla sua dispersione, non possono essere valorizzati per accreditare l’insussistenza del reato, operando solo sul piano “della mera suggestione dialettica”.
E’ stato infatti ricordato che ciò che rileva in punto di diritto è che la sostanza avrebbe dovuto essere comunque sequestrata, rimanendo nella disponibilità dell’Amministrazione fino al momento in cui, effettuati gli accertamenti chimici, ne sarebbe poi stata disposta la distruzione.
L’intervenuta apprensione da parte dello operatore di polizia giudiziaria della sostanza in questione determinò l’entrata nella sfera di esclusiva disponibilità dell’Amministrazione, senza che la mancata formalizzazione dell’atto di sequestro potesse rivestire alcuna rilevanza; la apprensione della sostanza determinò “con immediata sovrapposizione” il possesso in capo all’Amministrazione (quindi l’appropriazione), possesso a cui doveva seguire la corretta gestione del bene secondo le norme processuali vigenti.
E’ evidente che la dispersione non può avere effetti in termini di esclusione del reato, atteso che per contro trattasi di un segmento dell’azione dimostrativo dell’intervenuta disponibilità uti dominus del bene, che il p.u. indebitamente conseguì, configurando così nettamente l’ipotesi di reato in contestazione.
Non ha pregio la tesi secondo cui non poteva ritenersi lo stupefacente sequestrato quale bene di interesse per la pubblica finanza ed economia, dovendosi reputare rilevanti per il peculato militare della guardia di finanza (quale era il [OMISSIS]) solo i valori ed i generi collegati ai caratteristici compiti istituzionali del corpo.
Va infatti obiettato che il prevenuto era capo pattuglia con compiti di ordine pubblico, per cui rivestiva a tutti gli effetti il ruolo di pubblico ufficiale con funzioni di ordine pubblico, cui competeva la facoltà di sequestro dei beni ancorchè non rientranti specificatamente in quelli legati ai compiti istituzionali più specifici della Guardia di finanza.
Al rigetto del ricorso deve seguire la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
[OMISSIS]