La sentenza che lo scorso 13 giugno aveva negato la compatibilità del c.d. ergastolo ostativo previsto dall’art. 4 bis della Legge sull’Ordinamento penitenziario con l’art. 3 della Convenzione, ai sensi dell’art. 44 §2 (c) della stessa Convenzione deve dunque ritenersi definitiva.
Secondo la Corte l’ergastolo ostativo, si pone, dunque, in contrasto con l’art. 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo.

Tale decisione, sebbene non vincolante per l’Italia, apre la strada a numerosi altri ricorsi da parte di altrettanti detenuti che verserebbero in condizioni disumane.
L’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario concede al detenuto di fruire di permessi premio, lavoro esterno al carcere e misure alternative al carcere, tranne che la liberazione anticipata, solo qualora il detenuto decida di collaborare con la giustizia al fine di dimostrare la rottura dei legami con l’organizzazione criminale, o quando la collaborazione  offerta risulti irrilevante o inesigibile in modo tale da consentire, comunque, di escludere inequivocabilmente la presenza di contatti con la criminalità organizzata.
Il combinato disposto delle norme 4-bis e 58-ter dell’ordinamento penitenziario che regola il cosiddetto ”ergastolo ostativo” secondo la Corte di Strasburgo va modificato: costituisce una «life sentence without hope» e limita «indebitamente la prospettiva di un mutamento futuro dell’interessato e la possibilità di revisione della pena».
Pertanto, «non può essere qualificata come comprimibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione».
Secondo i giudici europei deve soprattutto essere smantellato il principio dell’automatismo, per fare in modo che siano i giudici a decidere caso per caso (gli ergastolani in Italia sono 1.776 di cui quasi i due terzi condannati all’ergastolo ostativo).

Avv. Giuseppina Massaiu (Foro di Roma)

Testo integrale sentenza CEDU 13 giugno 2019, n. 77633-16

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