Le parole usate dall’imputato ritenute obiettivamente scurrili e lesive dell’onore e del decoro della persona offesa e comprensibili da parte di chiunque, al di là della provenienza dialettale di alcune di esse, in quanto usate in ambito nazionale e riconosciute dalla generalità degli italiani come espressioni ingiuriose.

Suprema Corte di Cassazione
Sezione Prima Penale
Sentenza n. 19967/2006
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE – Con sentenza in data 20/5/2005 la Corte Militare di appello di Roma ha confermato la sentenza 29/10/2004 del Tribunale Militare di Roma che aveva dichiarato S.G. colpevole del reato continuato ed aggravato di ingiuria e lesione personale (di cui agli artt. 47 n. 3, 223 e 226 del cod. penale militare di pace) e lo aveva condannato alla pena di mesi due e giorni quindici di reclusione militare, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, per aver offeso l’onore ed il prestigio del parigrado D.F.A., durante un servizio di ronda, pronunciando nei suoi confronti le espressioni recchione, bucchino, siciliano di merda, colpendolo altresì con un pugno al volto, così cagionandogli una tumefazione locale escoriata in regione orbitale destra con soffusione ecchimotica a livello della palpebra superiore.
I giudici di merito hanno fondato il giudizio di responsabilità dell’imputato sulle dichiarazioni della persona offesa, D.F.A., ritenute attendibili anche perché, così dimostrando di non aver voluto in alcun modo approfittare della situazione, aveva inizialmente cercato di nascondere all’ufficiale di picchetto l’aggressione subita, poi emersa in modo incontestabile attraverso la visita medica che aveva dimostrato le lesioni, e confermate dalle testimonianze di F.C. e di M.E., oltre che dal riscontro oggettivo costituito dalle lesioni.
Gli stessi giudici hanno nel contempo respinto la tesi della legittima difesa affacciata dall’imputato sulla base dell’uso improprio, sia pure fastidioso, di una torcia elettrica, da parte della persona offesa, che la aveva appoggiata sulla spalla dell’imputato così rivolgendogli la luce verso il viso, rilevando che l’imputato aveva agito nell’ottica di una condotta aggressiva e violenta, aliena da qualsiasi intento difensivo, non potendo essere interpretato come una aggressione l’indirizzo del fascio di luce di una torcia elettrica verso l’imputato.
Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato personalmente lamentando, con tre distinti motivi: violazione di legge in relazione alla omessa applicazione della scriminante della legittima difesa contemplata dall’art. 42 del c.p.m.p., non richiedendo tale scriminante né l’intento difensivo né l’altrui aggressione, bensì soltanto la necessità di respingere da se o da altri una violenza, tale dovendo qualificarsi la azione dello S., che, secondo le dichiarazioni dell’imputato, lo aveva aggredito per ben due volte con la torcia e poi con pugni e calci;
violazione dell’art. 192, co. 3, c.p.p. in relazione all’art. 197 bis, co. 4, c.p.p., laddove aveva ritenuto attendibili le dichiarazioni della persona offesa, esaminata come testimone giudicato in un procedimento connesso definito con sentenza di patteggiamento in data 18/11/2003, pur mancando elementi di riscontro alle sue dichiarazioni, fra l’altro inattendibili anche in considerazione della diversa versione che aveva reso nella immediatezza del fatto all’ufficiale di picchetto;
violazione degli artt. 226, co. 1 e 228 c.p.m.p. per aver ritenuto offensive le espressioni asseritamente rivolte dall’imputato alla persona offesa in assenza di riscontro alle dichiarazioni della stessa persona offesa anche su tale punto e pur se pronunciate in dialetto e quindi non comprensibili da persona proveniente da diversa area geografica;
omessa applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 228 co. 2, c.p.m.p. di cui sussistevano le condizioni.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, che attiene alla mancata applicazione della scriminante della legittima difesa, consistente, ad avviso del ricorrente, nella reazione all’aggressione subita, alla stregua delle dichiarazioni da lui rese nel giudizio, la Corte di merito ha operato diversa ricostruzione del fatto per cui la persona offesa si era limitata a rivolgere una torcia elettrica verso il viso dell’imputato che aveva reagito con una condotta violenta consapevole, al di fuori di qualsiasi intento difensivo, provocando alla vittima lesioni personali poi riscontrate in sede di visita medica.
Si tratta di una ricostruzione fondata su una valutazione della prova conforme al parametro normativo di cui all’art. 192, commi 1, 2 e 3 c.p.p.[1] e comunque immune da vizi logico e giuridici, essendo state correttamente valutate come veritiere le dichiarazioni della persona offesa, poiché intrinsecamente attendibili per aver la vittima inizialmente cercato di approfittare della situazione a qualsiasi fine, essendo poi stata costretta a dire il vero dopo la visita medica che aveva incontestabilmente ed oggettivamente ed oggettivamente dimostrato come si erano svolti i fatti ed inoltre riscontrate dal rilievo obiettivo delle lesioni subite (perfettamente rispondenti alla versione resa dalla vittima) e dalle dichiarazioni di altri due testimoni.
Ed a fronte di tale ricostruzione non ha pregio la tesi del ricorrente per cui mancherebbero riscontri alla versione della persona offesa, essendo stati i riscontri individuati in modo ineccepibile sulla base di supporto probatorio ed è stata quindi correttamente respinta.
Anche il secondo motivo è infondato.
Le dichiarazioni rese da persone imputate o già imputate in un procedimento connesso, che sono sentite, come nel caso in esame, come testimoni, a norma dell’art. 197 bis, co. 1, c.p.p., sono annoverate fra le prove e non tra i semplici indizi, anche se il giudizio di attendibilità delle stesse necessità di riscontri esterni, deve essere cioè confrontato da altri elementi o dati probatori, che non sono peraltro predeterminati nella specie e nella qualità e che di conseguenza possono essere, in via generale, di qualsiasi tipo o natura, (v. sez. un. 3/32/1990, Belli).
A tale valutazione si è attenuta la Corte di merito che ha indicato i riscontri individuati nonché i motivi per cui ha ritenuto inattendibile e priva di alcun supporto probatorio la tesi difensiva per cui sarebbe stata la persona offesa ad aggredire per prima l’imputato e tale valutazione, attenendo al mero fatto, non è contestabile in sede di legittimità.
Quanto al terzo motivo, in tema di reato di ingiurie la sfera morale altrui può essere lesa sia con modalità direttamente ed oggettivamente aggressive del diritto all’apprezzamento e alla opinione altrui, sia con modalità che, oggettivamente non lesive, diventino tali per le forme in cui vengono estrinsecate.
Nel caso in esame le parole usate dall’imputato erano obiettivamente scurrili e lesive dell’onore e del decoro della persona offesa ed erano comprensibili da parte di chiunque, al di là della provenienza dialettale di alcune di esse, in quanto usate in ambito nazionale e riconosciute dalla generalità degli italiani come espressioni ingiuriose, per cui deve ritenersi provato che la persona offesa abbia percepito le espressioni ingiuriose in tutta la loro carica specificamente offensiva, come dalla stessa affermato.
In ordine infine alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 228, co. 2, del c.p.m.p., il motivo non è specifico, non avendo il ricorrente neppure indicato le condizioni che legittimerebbero tale applicazione.
In ogni caso non è individuabile un fatto ingiusto della persona offesa, tale non potendo qualificarsi l’indirizzo della luce di una torcia elettrica in ambiente abituale verso una persona conosciuta, la cui reazione sarebbe stata comunque del tutto sproporzionata ed inaccettabile rispetto ad un fatto banale come quello posto in essere dalla persona offesa.
Il ricorso deve essere in definitiva respinto perché infondati sono tutti i profili addotti, con le conseguenze di legge in punto di spese processuali.
P.Q.M .
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2006.