La condotta del funzionario di un ente pubblico incaricato dell’esecuzione dei pagamenti, c.d. agente pagatore, che sottoscrive mandati di pagamento non dovuti commette il reato di peculato e non di truffa aggravata avendo egli la disponibilità diretta delle somme di danaro.
(Cass. Sezione VI Penale , 4.5.2018-13.8.2018, n. 38535)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOGINI Stefano – Presidente –
Dott. VILLONI Orlando – Consigliere –
Dott. CALVANESE Ersilia – rel. Consigliere –
Dott. CORBO Antonio – Consigliere –
Dott. D’ARCANGELO Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
OMISSIS;
avverso la sentenza del 02/03/2017 della Corte di appello di Torino;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Aniello Roberto, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato;
udite le parti civili che ha concluso come da conclusioni scritte e nota spese;
udito il difensore che ha concluso insistendo nei motivi di ricorso.
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Torino confermava la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città che aveva condannato, all’esito di giudizio abbreviato, OMISSIS per reati di cui agli artt. 81 e 314 cod. pen., condannandola alla pena ritenuta di giustizia e alle statuizioni civili.
All’imputata era stato contestato di essersi impossessata, nella sua qualità di responsabile del Servizio finanza-tributi dei Comuni di Casalborgone e di Monteu da PO, di somme di danaro delle quali aveva la disponibilità in ragione del suo ufficio.
In particolare, secondo le imputazioni riportate nelle sentenze di merito, la predetta si sarebbe impossessata, in concorso con OMISSIS, di rilevanti somme di danaro (per circa complessivi 980 mila Euro), effettuando pagamenti non dovuti alla ditta di quest’ultimo (capi 1 e 2); delle somme di Euro 2.040 e di Euro 485, facendole figurare come importi alla stessa dovuti quali oneri previdenziali (capo 3); della somma di almeno Euro 36.683, riscossi per contante per il servizio mensa, che non provvedeva a versare sul conto di Tesoreria (capo 4).
1.1. In sede di appello, l’imputata aveva contestato la qualificazione giuridica degli episodi contestati nei capi 1) e 2) della rubrica (dei quali aveva ammesso la materialità dei fatti), ritenendo che la condotta integrasse il reato di truffa aggravata, posto che solo per alcuni capitoli di spesa aveva la diretta disponibilità delle somme, mentre per altri l’iter dispositivo era rimesso alla esclusiva competenza di altri dirigenti, fungendo la imputata solo quale “emissaria” del mandato di pagamento e non avendo la competenza alla loro predisposizione.
Secondo la difesa, l’imputata avrebbe quindi per questi ultimi capitoli fraudolentemente confezionato dei mandati con l’indicazione di atti di delibera inesistenti.
Questa prospettazione era ritenuta infondata dalla Corte di appello, essendo stato accertato che la qualifica che rivestiva l’imputata all’epoca dei fatti le attribuiva la competenza a sottoscrivere i mandati di pagamento, senza alcuna necessità di porre in essere condotte fraudolente strumentali all’atto dispositivo, posto che nessun controllo incombeva sull’ufficio di tesoreria in merito alla regolarità e legittimità dei mandati di pagamento.
1.2. Per i restanti episodi di peculato, l’imputata aveva, con il gravame, denunciato: per il capo 3) la mancanza di prove in ordine alla illegittimità del versamento in suo favore (visto che era stato utilizzato il mezzo del bonifico sul proprio conto corrente) e la entità degli ammanchi per il capo 4).
La Corte di appello rilevava quanto al capo 3) che, a fronte del dato documentale incontrovertibile, la imputata non aveva offerto alcuna giustificazione e l’appello sul punto doveva ritenersi generico; in ordine al capo 4) che era la sola imputata a gestire le somme in questione sia in fase di conteggio una volta incassati sia nella fase del loro riversamento sul conto di Tesoreria e comunque era solita periodicamente effettuare riscontri sul quaderno dove le somme erano annotate e quindi, verosimilmente (non avendo altrimenti senso un controllo sul solo quaderno cartaceo) anche su quelle custodite in cassaforte.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.:
– violazione di legge in relazione alla qualificazione del fatto in peculato, anzichè in truffa aggravata dall’art. 61 c.p., n. 9, in quanto erroneamente la Corte di appello per i capi 1) e 2) della rubrica avrebbe posto l’attenzione sul solo momento della presentazione del mandato alla Tesoreria (soggetto in ogni caso privo di potere di controllo), mentre doveva considerarsi che la imputata non aveva per ragioni di ufficio il possesso delle somme sui capitoli, che aveva potuto acquisire solo grazie ad artifici (ovvero l’indicazione di atti di delibera inesistenti);
– vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità della ricorrente per i reati di cui ai capi 3) e 4) della rubrica, fondata su un ragionamento deduttivo (la esclusione della responsabilità di altri soggetti) che non ha tenuto conto della inaffidabilità del sistema di contabilità relativi al relativo servizio comunale (mensa), basato sulla mera annotazione manuale su un quaderno, e quindi della mancanza di un controllo regolare delle somme esistenti in cassaforte; in ogni caso, quanto al capo 3), risulterebbe incomprensibile attribuire alla ricorrente lo storno truffaldino di somme sul suo conto corrente, risultando più consono ritenere tale movimento legittimo;
– violazione di legge in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen. e alla dosimetria della pena (art. 133 cod. pen.), avendo basato la Corte di appello il relativo ragionamento giustificativo su un eccesso congetturale, contrario ai principi di cui all’art. 192 cod. proc. pen., in ordine alla destinazione delle somme sottratte, in assenza della prova dell’arricchimento personale della ricorrente (le somme veicolate al P. erano tracciabili in ogni successivo passaggio; il patrimonio della ricorrente era stato ampiamente setacciato in sede di indagini); inoltre, la Corte di appello avrebbe illogicamente svalutato le somme versate a titolo di iniziale risarcimento nei confronti degli enti locali interessati, in ragione delle modalità di pagamento.
1. Il ricorso è infondato.
2. Non ha fondamento la prima censura relativa all’esatta qualificazione dei fatti per i capi 1) e 2) della rubrica.
Questa Corte ha avuto modo di chiarire la questione sollevata nel ricorso (Sez. 6, n. 50074 del 27/09/2016, Maione, in motivazione; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, Panzetta, non mass.) in relazione alla procedura di pagamento degli ordinatori di spesa nel sistema della pubblica contabilità.
Nella specie, è stato accertato in fatto dai giudici di merito che l’imputata rivestiva la funzione di “agente pagatore”, incaricata cioè da parte della Pubblica amministrazione di appartenenza dell’esecuzione di pagamenti (tanto che uffici diversi dovevano rivolgersi alla stessa per poter emettere mandati di pagamento). La predetta aveva quindi la “disponibilità giuridica” delle somme oggetto dei mandati di pagamento di cui alle citate imputazioni.
Come è stato affermato nei citati arresti, l’emissione dell’ordine di pagamento da parte del funzionario pubblico presuppone necessariamente la indicazione di una causale ovvero della fonte dell’obbligo giuridico per l’ente pubblico di pagare una determinata somma (che potrà essere un atto amministrativo, un contratto o una sentenza di condanna); in tale contesto procedimentale la ricognizione di un siffatto obbligo viene effettuata con l’assunzione dell’impegno di spesa e con l’apposizione del vincolo sulle disponibilità finanziarie, che precede la liquidazione del dovuto, la ordinazione e il pagamento.
Le eventuali falsificazioni poste in essere dal funzionario ordinatore di spesa al fine di giustificare sul piano formale la procedura di pagamento, così da superare i controlli previsti dalle norme di contabilità pubblica, non escludono la ricorrenza del peculato, posto che, come ordinatore di spesa, il funzionario aveva la disponibilità giuridica delle somme impegnate.
3. Quanto alle critiche relative al capo 3) della rubrica, la ricorrente non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, replicando meramente il motivo di appello.
La Corte di appello ha infatti ritenuto generico sul punto il gravame a fronte della prova documentale.
Le critiche per il capo 4) non hanno fondamento alla luce del complessivo ragionamento probatorio effettuato dai giudici di merito sin dal primo grado.
In sede di appello, la ricorrente aveva riproposto gli stessi argomenti già affrontati e superati dal primo giudice.
Era stato invero accertato che le somme incassate per contanti venivano annotate dai dipendenti su un quaderno e custodite dalla imputata che periodicamente le versava in Tesoreria e che era la stessa imputata ad effettuare la somma degli incassi e riportarne la somma sul quaderno.
Il Giudice dell’udienza preliminare aveva affrontato tutte le ipotesi alternative in ordine alla ricostruzione dei fatti, escludendole con argomenti manifestamente logici, che trovavano il punto di convergenza nel dato fattuale che l’imputata sapeva quanto denaro veniva di volta in volta incassato ed era la stessa a riversarlo in Tesoreria.
Quindi l’attribuzione all’imputata dell’impossessamento dell’ammanco di cassa, confermato in appello, riposava sull’accertato “controllo” di cui sopra, che veniva a superare tutte le critiche difensive.
4. Non hanno fondamento neppure le censure sul trattamento sanzionatorio.
Il ragionamento sul punto attinto dal ricorso appare non censurabile in questa sede, in quanto non affetto da vizi logico-giuridici rilevanti ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen..
La motivazione della sentenza impugnata va invero correlata ai motivi di appello, con i quali la ricorrente aveva richiamato a sostegno della richiesta la sua incensuratezza, le spiegazioni fornite, il mancato incremento del patrimonio e il risarcimento effettuato: tutti elementi che la Corte di appello ha ritenuto in modo non irragionevole o viziato irrilevanti.
In questa chiave vanno lette in particolare le motivazioni criticate dalla ricorrente: quest’ultima aveva infatti sostenuto di aver agito senza un suo tornaconto personale e la Corte di appello ha rilevato che si trattava di un dato neutro e che comunque non era dirimente che non fosse stato reperito il denaro in suo possesso.
Quanto al risarcimento del danno, la motivazione ha stigmatizzato plausibilmente il fatto che a distanza di cinque anni dai fatti la imputata avesse esibito in giudizio solo due assegni circolari per importi risibili neppure verificando la effettiva loro riscuotibilità da parte dei comuni (così come indicato da una delle parti civili).
5. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Alla condanna consegue inoltre anche la rifusione da parte della ricorrente delle spese di questa fase sostenute dalle parti civili, liquidate nel dispositivo.
La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di rito.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili costituite comune di Casalborgone e comune di Monteu da Po, che liquida complessivamente in Euro 4.200,00, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA. Manda alla Cancelleria per le comunicazioni di cui all’art. 154-ter disp. att. cod. proc. pen..

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.