L’inserimento in cartella clinica di elementi “ora per allora” pregiudica gravemente la funzione tipica dell’atto e non può rappresentare in alcun modo un ”errore materiale” o una ”innocua integrazione”, posto che la cartella clinica rappresenta un diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti.

(Cass. Pen. Sez. V, sentenza 29 maggio – 11 settembre 2013, n. 37314)


Corte Suprema di Cassazione
Sezione Quinta Penale
Sentenza 29 maggio – 11 settembre 2013, n. 37214

1. Con sentenza del 22 gennaio 2010, il G.U.P del Tribunale di Sassari, all’esito di giudizio abbreviato, assolveva P.M. dall’accusa di falso materiale in atto pubblico, perché il fatto non costituisce reato, in relazione all’inserimento nella cartella clinica di M.A. della dicitura “NB 3 bande oligoclonali”, tra le annotazioni datate (omissis) e (omissis) , subito dopo la fase “siamo in attesa della risposta per quanto riguarda la ricerca delle bande oligoclonali”.
La paziente era stata ricoverata nella clinica neurologica degli Ospedali (omissis) , sulla base di una diagnosi di “sclerosi multipla definita”, successivamente rivelatasi errata; la dicitura “NB 3 bande oligoclonali”, pur riferita ad esami svolti alla fine del …, non risultava in una copia della cartella estratta in data (omissis) , in possesso della parte civile, per cui secondo la tesi accusatoria era stata aggiunta in epoca successiva.
1.1 Il G.U.P del Tribunale di Sassari perveniva all’assoluzione dell’imputata ritenendo che l’annotazione riguardasse un dato vero, cioè l’esito dell’esame clinico, collocato in un contesto cronologico diverso da quello reale, cioè almeno 10 anni dopo, essendo stato accertato che l’inserimento effettivo del dato è da collocarsi tra il … ed il … (probabilmente in epoca successiva al (omissis) ). Secondo il primo giudice, pur essendo richiesto ai fini del delitto di falso il dolo puramente generico, che prescinde dallo scopo che l’agente si sia proposto, è pur sempre necessaria la consapevolezza e volontà dell’immutatio veri, da escludersi laddove la falsità risulti essere oltre o contro l’intenzione dell’agente, oppure sia dovuta leggerezza oppure ad una negligente applicazione di prassi amministrative, non essendo prevista nel sistema vigente la figura del falso documentale colposo.
2. In seguito all’appello proposto dal Procuratore della Repubblica di Sassari e dalla parte civile, la Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, condannava l’imputata alla pena di giustizia, ritenendo dimostrato il dolo della medesima.
2.1 Nella decisione la Corte, dopo aver evidenziato le contraddizioni della tesi sostenuta dall’imputata durante il suo esame, richiama la giurisprudenza sulla falsificazione della cartella clinica, alla luce della quale non può dubitarsi della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato; il dato cronologico della annotazione è indubbiamente significativo, poiché la cartella clinica rappresenta un diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, sicché l’alterazione di tale diario, inserendo elementi ora per allora, pregiudica gravemente la funzione tipica dell’atto e non può rappresentare in alcun modo un “errore materiale” o una “innocua integrazione”.
3. Contro la decisione della Corte d’appello di Cagliari propone ricorso per cassazione l’imputata, con atto redatto dal proprio difensore, avv. Giuseppe Conti, affidato a tre motivi.
3.1 Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 606 comma 1, lettera B ed E, cod. proc. pen., con riferimento all’obbligo di motivazione rafforzata gravante sul giudice di appello, in relazione all’elemento soggettivo del reato di falso, escluso in primo grado. La motivazione è incentrata prevalentemente sulla dimensione oggettiva del reato, che non era in contestazione, per affrontare il tema del dolo solo a pagina 14, ai punti 17 e 20, ricorrendo ad un presunto movente (l’erronea diagnosi di sclerosi multipla) che però non è stato dimostrato; in definitiva, allora, non è stato eliminato il “ragionevole dubbio”, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto tra i due giudizi.
3.2 Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 606 comma 1, lettera B ed E, cod. proc. pen., con riferimento all’art. 533, cod. proc. pen., come modificato dall’articolo 5 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, per motivazione illogica; la Corte territoriale non ha tenuto nel debito conto le certificazioni mediche introdotte dalla difesa e relative agli esiti dell’esame immunologico del liquor, dando per non appurato il dato analitico inserito, pur in presenza del certificato del (omissis) della Dott.ssa Ma. , sulla base delle contestazioni formulate dalla parte civile con l’esposto depositato il (OMISSIS) alla procura della Repubblica di Cagliari, laddove invece, per contestare il dato da cui era partito il giudice di primo grado, ovvero l’autenticità del dato inserito nella cartella clinica, sarebbe stata necessaria una perizia, richiesta anche dal procuratore generale in appello (e dalla parte civile). Ciò si traduce, sul piano della motivazione, in un vizio logico, poiché la pronuncia di condanna non si fonda su un accertamento giudiziale sostenuto da certezza razionale, ossia da una probabilità logica così elevata, da confinare con la certezza.
3.3 Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 606 comma 1, lettera E, cod. proc. pen., con riferimento alla contraddittorietà della motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato, poiché, pur affermando in premessa che il procedimento non ha ad oggetto la contestazione di lesioni personali conseguenti a colpa professionale medica, di fatto la tesi dell’errore diagnostico, sostenuta dalla parte civile, ha finito con il condizionare pesantemente la motivazione, per questo motivo censurabile.
4. Con memoria del 13 maggio 2013, il difensore dell’imputata ha proposto un motivo aggiunto, a norma dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen., relativo a violazione di legge, in relazione all’art. 476 cod. pen., per il mancato riconoscimento del carattere grossolano o innocuo del falso contestato.
4.1 Con riferimento alla prima ipotesi, si evidenzia che l’utilizzo della propria grafia senza alcuno sforzo di alterazione, l’uso del corsivo, la sigla “NB” sottolineata due volte rendevano evidente l’aggiunta dell’esito dell’esame relativo alle bande oligoclonali e consentivano di escludere l’intenzione di camuffare l’integrazione, ma rendevano immediatamente percepibile che si trattava di un’aggiunta successiva ad un testo originario.
4.2 Con riferimento al secondo aspetto, considerata la veridicità dell’integrazione, appariva evidente l’inidoneità dell’aggiunta a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità del documento, poiché il dato annotato nella cartella clinica, rispondente alla verità, era nel precipuo interesse della M. ; lo stesso autore della cartella avrebbe dovuto annotare l’esito dell’esame, per la cui la condotta si è rivelata in concreto del tutto inoffensivo.
5. Con memoria del 21 maggio 2013, il responsabile civile A.S.L. n. X di Sassari, difesa dall’avv. Daniela Falchi, deduce che i motivi posti a base dell’impugnazione proposta dall’imputata sono fondati e meritevoli di accoglimento, poiché correttamente il giudice di primo grado aveva escluso l’elemento soggettivo del reato, partendo dal fatto processualmente accertato che l’imputata ha aggiunto alla cartella clinica un dato vero, risultato da un esame clinico effettuato nel … e confermato da un esame eseguito nel … sul medesimo liquor della paziente. La Corte d’appello ha invece equivocato il concetto di verità del dato clinico ed ha erroneamente ritenuto che l’inserimento dell’annotazione fosse motivato dalla scopo di salvaguardarsi da ipotetiche responsabilità per un errore di diagnosi, dimenticandosi che la diagnosi di sclerosi multipla era stata formulata da altro medico.
Infine la Corte ha omesso di considerare che il fatto potesse essere considerato un falso “grossolano” oppure “innocuo”, considerate le modalità grafiche dell’annotazione e l’oggettivo vantaggio arrecato alla paziente.
Considerato in diritto
1. Il ricorso dell’imputata va rigettato.
1.1 Poiché i tre motivi principali proposti dalla ricorrente investono tutti la motivazione della sentenza di appello, occorre precisare i limiti del sindacato di legittimità, delineati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006.
1.2 A giudizio del Collegio la predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione finalizzata a sovrapporre una propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. travisamento della prova, purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.
1.3 L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve risultare di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivise, Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074). A tal riguardo, devono tuttora escludersi la possibilità di un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi (Sez. 6, n. 14624 del 20/03/2006, Vecchio, Rv. 233621; Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008, Ferdico, Rv. 239789), e la possibilità per il giudice di legittimità di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099).
1.4. Inoltre, anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002 – dep. 14/01/2003, Delvai, Rv. 223061).
1.5. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, già adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (per tutte, cfr. Cass. pen., Sez. un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, rv. 222139), e successivamente recepita nel testo novellato dell’art. 533 cod. proc. pen., quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale. Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530 cod. proc. pen., comma 2, sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (Sez. 2, n. 19575 del 21/04/2006, Serino, Rv. 233785; Sez. 2, n. 16357 del 02/04/2008, Crisiglione, Rv. 239795).
1.6. Alla luce di queste necessarie premesse vanno esaminati i motivi di ricorso. 2. Il primo motivo, attinente la violazione dell’obbligo per il giudice di appello di adottare una motivazione rafforzata laddove pervenga ad una decisione di condanna in riforma di una precedente assoluzione, è infondato.
2.1 Secondo il condivisibile insegnamento di questa Corte Suprema, la radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma deve fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineatasi situazione di conflitto valutativo delle prove: ciò in quanto il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, bensì la semplice non certezza – e, dunque, anche il dubbio ragionevole – della colpevolezza.
2.2 Nel caso di specie, però, il diverso esito del giudizio non è legato ad una diversa valutazione delle prove, poiché i fatti storici sono incontestati; quel che muta è solo la valutazione giuridica dei fatti, e la Corte territoriale perviene ad un diverso esito, con motivazione maggiormente persuasiva di quella del G.U.P. presso il Tribunale di Sassari, confrontandosi ripetutamente con quella.
2.3 La Corte territoriale fa corretta applicazione della costante giurisprudenza di questa Corte sulla natura della cartella clinica e sulla rilevanza delle condotte di alterazione del suo contenuto.
In primo luogo non può dubitarsi della natura di atto pubblico della cartella clinica redatta dal medico di una struttura sanitaria pubblica, in ogni parte di essa, (Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu, Rv. 191175; Sez. 4, n. 37925 del 07/07/2010, Marchetti, Rv. 248448 n. 31858/09); più in particolare essa ha natura di atto pubblico munito di fede privilegiata, con riferimento alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti da questi attestati come avvenuti in sua presenza (Sez. 5, n. 31858 del 16/04/2009, P., Rv. 244907), sicché l’atto adempie alla funzione di diario della malattia e di altri fatti clinici rilevanti.
3. Nel secondo motivo la ricorrente insiste sul carattere veritiero dell’annotazione aggiunto alla cartella, circostanza dalla quale deduce l’assenza di dolo dell’imputata e censura la decisione della Corte territoriale di non fatto eseguire una perizia sul liquor della paziente.
Anche questo motivo è infondato, poiché il giudice di appello ha ritenuto superflua la perizia richiesta, sulla base della considerazione che anche laddove il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale, alterando il testo della cartella clinica, sussiste ugualmente il reato di falso materiale, perché la cartella acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata (Sez. 5, n. 35167 del 11/07/2005, Pasquali, Rv. 232567; Sez. 5, n. 13989 del 17/02/2004, Castaido, Rv. 228024). Ciò perché, come si è già accennato, l’atto adempie alla funzione di “diario” della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui annotazione deve quindi avvenire contestualmente al loro verificarsi.
Del resto va ricordato che la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude che la perizia possa farsi rientrare nel concetto di prova decisiva fatto proprio dall’art. 606 lettera D; la norma citata contiene infatti un esplicito riferimento all’art. 495, comma 2, c.p.p. e, pertanto, si riferisce alle prove a discarico, mentre la perizia non può essere considerata tale, stante il suo carattere per così dire “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e sostanzialmente rimesso alla discrezionalità del giudice (Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, P.G. in proc. Ligresti, Rv. 229665).
In altri termini, la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può essere dedotta sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva, ma solo sotto la lente del vizio di motivazione, ove il giudice di merito fondi la ricostruzione dei fatti su indimostrate affermazioni o su pareri tecnici legalmente acquisiti al processo ma non valutati criticamente. Nel caso di specie la decisione di non procedere a perizia è argomentata in maniera logicamente coerente ed ineccepibile, se si considerano le affermazioni della giurisprudenza di legittimità fin qui richiamata.
4. L’attenzione deve quindi spostarsi sul terzo motivo e più in generale sulla dedotta insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, che secondo la ricorrente viene invece affermato partendo da una premessa sbagliata, ossia l’esistenza di un preciso movente (la copertura dell’errore diagnostico), che per la ricorrente non risponde al vero e del quale contraddittoriamente la sentenza afferma di non voler tenere conto.
4.1 In definitiva la ricorrente mostra di credere che il dolo sarebbe stato da escludere per il solo fatto che ella era stata mossa unicamente dall’intento di rendere le annotazioni contenute nella cartella clinica conformi al vero. Al riguardo, vale semplicemente osservare che la fede pubblica, costituente il bene giuridica protetto dalla norma incriminatrice in questione, viene ad essere lesa anche quando, indipendentemente dal contenuto dell’atto pubblico, non vi sia corrispondenza tra l’effettivo “iter” di formazione del medesimo atto e quello che appare dal suo aspetto grafico, dandosi luogo anche in tale ipotesi alla falsa rappresentazione di una realtà giuridicamente rilevante; il che costituisce, a ben vedere, la vera ragione giustificativa del già ricordato orientamento interpretativo secondo cui sussiste il reato di falso ogni qual volta si intervenga con modifiche su di un atto già definitivamente formato, pur quando l’intento dell’agente sia quello di renderne il contenuto conforme al vero. Se così è, ne deriva che la coscienza e la volontà di operare un tale intervento non può non equivalere a quella di realizzare una diretta, effettiva e riconoscibile lesione proprio del bene giuridico protetto dalla norma, a nulla rilevando che, per mero errore di diritto circa la effettiva portata della norma medesima, di detta lesione il soggetto possa non avere piena consapevolezza.
5. Anche le deduzioni proposte nei motivi aggiunti in ordine alla sussistenza di una ipotesi di falso grossolano o inutile sono infondate, al limite dell’inammissibilità.
5.1 La giurisprudenza di questa Sezione, tradizionalmente, facendo applicazione dell’art. 49 c.p., distingue, in tema di falso, l’inidoneità della azione, che ricorre nel cosiddetto falso “grossolano”, nel falso, cioè, che per essere macroscopicamente rilevabile, non è idoneo a trarre in inganno alcuno, dall’inesistenza dell’oggetto, che ricorre nel cosiddetto falso c.d. “inutile”, nel falso, cioè, che cade su un atto, o su una parte di esso assolutamente privo di valenza probatoria (Sez. 5, n. 11498 del 05/07/1990, Casarola, Rv. 185132).
Più recentemente il secondo concetto è stato sviluppato, ritenendosi sussistere il falso innocuo (o inutile o superfluo) quando la condotta, pur incidendo sul significato letterale di un atto (falso ideologico) o di un documento (falso materiale), non incide sul suo significato di comunicazione, così come esso si manifesta nel contesto, anche normativo, della formazione e dell’uso, effettivo o potenziale, dell’oggetto (Sez. 5, n. 38720 del 19/06/2008, Rocca, Rv. 241936).
In altri termini, la punibilità del falso è esclusa, per inidoneità dell’azione, tutte le volte che l’alterazione appaia del tutto irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’atto, perché non ne modifica il senso oppure si riveli in concreto inidonea a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità del documento, cioè non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico.
5.2 Al riguardo, posto che la grossolanità ed innocuità del falso vengono prospettate essenzialmente in relazione al fatto che appariva rilevabile ictu oculi l’aggiunta dell’annotazione, vale ricordare il principio già affermato da questa Corte, secondo cui in tema di falso documentale, ai fini dell’esclusione della punibilità per inidoneità dell’azione ai sensi dell’art. 49 cod. pen., occorre che appaia in maniera evidente la falsificazione dell’atto e non solo la sua modificazione grafica. Di conseguenza, le abrasioni e le scritturazioni sovrapposte a precedenti annotazioni, le aggiunte evidenti, pur se eseguite a fini illeciti immediatamente riconoscibili, non possono considerarsi, di per sé e senz’altro, un indice di falsità talmente evidente da impedire la stessa eventualità di un inganno alla pubblica fede, giacché esse possono essere o apparire una correzione irregolare, ma non delittuosa, di un errore materiale compiuto durante la formazione del documento alterato dal suo stesso autore.
Spetta, poi, al giudice di merito stabilire, fornendo congrua motivazione, se le peculiarità della specifica alterazione siano da ritenere un’innocua correzione oppure l’espressione di un’illecita falsificazione grossolanamente compiuta (Sez. 5, n. 3711 del 02/12/2011 – dep. 30/01/2012, Baldin, Rv. 252946; Sez. 5, n. 10259 del 07/10/1992, Borzì, Rv. 192299).
Quanto all’innocuità del falso, valgono le considerazioni già svolte nel confutare il secondo motivo.
6. In conclusione il ricorso dell’imputata va rigettato.
6.1 Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. Al rigetto consegue la condanna alle spese sostenute dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 2.500,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.500,00, oltre accessori secondo legge.

 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.