In materia di ingiusta detenzione è illegittima la riduzione dell’indennizzo sulla scorta della presunta assuefazione al regime restrittivo dovuta a pregressa e differente detenzione poichè contrastante con i principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà sociale e non conforme ai canoni della logica.
(Cass. Sezione IV Penale, 12 novembre 2013 – 14 gennaio 2014, n. 1219)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino – Presidente –
Dott. ROMIS Vincenzo – Consigliere –
Dott. MARINELLI Felicetta – Consigliere –
Dott. CIAMPI Francesco M. – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:
OMISSIS;
avverso l’ordinanza n. 123/2011 CORTE APPELLO di PALERMO, del 23/04/2012;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO;
lette le conclusioni del PG Dott. Giuseppina Fodaroni, che ha concluso per la correzione dell’errore materiale di computo dei giorni di ingiusta detenzione e per il rigetto nel resto.
1. Con ordinanza in data 23/4/2012 la Corte di Appello di Palermo accoglieva parzialmente (domandati Euro 150,000,00, ritenuti Euro 44.640,00) l’istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione proposta da OMISSIS. Costui era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal 29 giugno 2009 al 13 dicembre 2010 nell’ambito di un procedimento che lo aveva visto indagato per i delitti di rapina aggravata e detenzione e porto di armi, conclusosi con sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto.
1.2. La Corte territoriale riteneva che il OMISSIS non avesse dato causa alla custodia cautelare subita, poichè le accuse nei suoi confronti si erano fondate su un riconoscimento non confermato in sede dibattimentale; escludeva, altresì, il diritto all’indennizzo in relazione ai periodi per i quali risultava altro titolo di detenzione (dal 1 ottobre 2009 al 13 novembre 2009 per esecuzione di pena, dal 28 aprile 2010 al 13 dicembre 2010 per applicazione di misura di sicurezza detentiva).
Assunto, quindi, quale parametro di riferimento quello aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art. 315 c.p.p., comma 2 e il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. c), avuto riguardo alla durata della carcerazione ingiustamente subita, e considerate, nell’ambito di una valutazione complessivamente equitativa, la personalità del OMISSIS, desumibile dai numerosi precedenti penali a suo carico, e le precedenti esperienze carcerarie sofferte in espiazione di condanna, riduceva la misura giornaliera dell’indennizzo da Euro 235,82 (rivenienti dal c.d. calcolo nummario) a Euro 180,00.
La Corte territoriale, richiamandosi a una massima di esperienza basata sull’id quod plerumque accidit, riteneva nel caso concreto sussistente una “minore afflittività della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una persona la cui immagine sociale è già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con l’ambiente carcerario rende meno traumatica l’ingiusta detenzione”.
2. Con ricorso per cassazione il ricorrente deduce illogicità della motivazione in ordine alla determinazione del quantum liquidato.
Osserva che la Corte avrebbe dovuto motivare specificamente sulle circostanze e sugli elementi indicativi di una minore afflittività nella privazione ingiusta della libertà personale e non limitarsi a mere presunzioni non adeguatamente provate e logicamente motivate;
rileva che la pregressa esperienza carceraria può comportare, contrariamente a quanto genericamente desunto in via astratta e presuntiva, anche una maggiore intensità della sofferenza patita;
deduce, altresì, l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di riconoscimento della somma spettante per interessi moratori.
2.1. Con ulteriore motivo osserva che erroneamente la Corte aveva determinato la durata della detenzione in giorni 248, poichè da un corretto calcolo si perveniva a un totale di 264 giorni di carcerazione.
3. L’Avvocatura Generale dello Stato ha presentato memoria difensiva, insistendo per la declaratoria d’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso.
4. Al fine di fornire una risposta adeguata alla censura formulata con il primo motivo di ricorso occorre richiamare per grandi linee la struttura e il fondamento dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione. Esso, disciplinato agli artt. 314 e 315 codice di rito in sintonia con i principi affermati in materia dall’art. 5, comma 5 della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, è stato introdotto a seguito dell’intervento della sentenza della Corte Cost. n. 1/1969, con la quale era stato demandato al legislatore ordinario il compito di specificare se tra i casi di “riparazione degli errori giudiziari” richiamati dall’art. 24 Cost., u.c. dovesse farsi rientrare anche l’ingiusta carcerazione preventiva.
Con lo strumento della riparazione si è consentita la proposizione di una istanza d’impronta essenzialmente civilistica e di natura indennitaria, perchè riconnessa a un atto giudiziario legittimo, dinanzi a un organo che esercita la giurisdizione penale, e ciò in ragione della contiguità del diritto vantato con il procedimento volto all’accertamento dei reati. Il richiamo contenuto nell’art. 315 c.p.p., u.c. alle disposizioni in materia di riparazione dell’errore giudiziario, accompagnato dalla clausola di compatibilità, rende evidente la comune matrice delle due discipline.
Come evidenziato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, altro tratto caratteristico dell’istituto è il carattere equitativo della liquidazione dell’indennità, connessa alla delicatezza della materia e alle difficoltà per l’interessato di provare nel suo preciso ammontare la lesione patita, fattori che hanno indotto il legislatore “a non prescrivere al giudice l’adozione di rigidi parametri valutativi, lasciandogli, al contrario – s’intende, entro i confini della ragionevolezza e della coerenza – ampia libertà di apprezzamento delle circostanze del caso concreto” (Cass., S.U. n. 24287 del 9/5/2001 Rv 218975).
La richiamata decisione del giudice di legittimità è pervenuta a ritenere corretto un criterio di calcolo, da allora costituente parametro generale in giurisprudenza per la liquidazione dell’indennità, che tiene conto del rapporto tra il termine massimo di custodia cautelare e la durata della detenzione effettivamente patita, avendo come punto di riferimento la maggior somma liquidabile a norma dell’art. 315 c.p.p., comma 2, la quale resta limite invalicabile per la determinazione giudiziale dell’entità della riparazione. Il criterio di base enunciato appariva utile al fine di sottrarre la determinazione dell’indennizzo a un’eccessiva discrezionalità del giudice e garantire in modo razionale una uniformità di indirizzo, ma non impediva la considerazione delle conseguenze di natura economica, familiare e personale cagionate al richiedente dall’ingiusta privazione della libertà.
Sulla scorta di tali linee fondamentali d’indirizzo questa Corte, in un primo periodo della sua elaborazione, è giunta a negare che l’indennizzo potesse costituire “la risultante di un metodo composito che assommi i criteri aritmetici (rapporto tra il tetto massimo di indennizzo di cui all’art. 315, comma 2, ed il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. c)) ed i criteri equitativi (che tengono conto sia della durata della custodia cautelare, sia delle conseguenze personali e familiari derivate dalla privazione della libertà), in quanto i predetti parametri aritmetici individuano il massimo indennizzo liquidabile relativamente a tutte le conseguenze personali e familiari patibili per ogni giorno di detenzione, che non può essere corretto in aumento facendo riferimento al criterio equitativo” (così Cass. 29/4/2003 n. 28334 rv 225963).
Questo orientamento, che assumeva il criterio del calcolo aritmetico come limite massimo della complessiva valutazione, risulta, però, superato nella successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, con ripetute decisioni conformi, ha chiarito che “i parametri aritmetici individuano soltanto di norma o, se si vuole, soltanto tendenzialmente il massimo indennizzo liquidabile relativamente a tutte le conseguenze personali e familiari patibili per ogni giorno di ingiusta detenzione, libero essendo il giudice di discostarsene, sia in meno sia in più, e non solo marginalmente… dando però di quel discostarsi… congrua motivazione e ciò, ancora una volta, per far apprezzare, in una valutazione equitativa, l’equità”. Nelle successive pronunce della giurisprudenza di legittimità si legge, in applicazione del criterio enunciato, che il parametro medio giornaliero può essere sensibilmente superato rispetto agli standard, purchè non si sfondi il tetto massimo della somma erogabile normativamente previsto (in tal senso Cass. Sez. 4 n. 34857/2001 Rv 251429, Cass. n. 10123 del 1711/2011 Rv. 252026).
3. Tanto premesso, e ritornando alla questione che costituisce specifico argomento della censura svolta dal ricorrente, va evidenziato che, con riferimento al tema della determinazione dell’indennizzo nei confronti di soggetto che abbia riportato precedenti condanne e abbia già subito in passato la restrizione carceraria, sono da registrare due orientamenti difformi in seno alla giurisprudenza di questa Corte. Secondo un primo indirizzo (Cass. Sez. 4, n. 23124 del 13/5/2008, Cass. Sez. 4 n. 3467 del 22/6/2010), è legittimo operare una riduzione sulla somma giornaliera computata quale frazione aritmetica di quella massima liquidabile per legge, data la più tenue afflittività della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una persona la cui immagine sociale sia già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con l’ambiente carcerario rende meno traumatica l’ingiusta privazione della libertà.
Secondo altro orientamento (Cass. Sez. 4 n. 9713 del 27/10/2009 e altre, Cass. Sez. 3, n. 17404 del 20/1/2011), deve riscontrarsi vizio motivazionale laddove il giudice di merito riduca l’ammontare dell’indennizzo in forza di una generica presunzione. In proposito si evidenzia (si veda l’ultima pronuncia citata) che “il richiamo di precedente esperienza carceraria quale fattore di riduzione della misura del diritto alla riparazione introduce sia classi diverse di dolore per un medesimo fatto ingiusto e nocivo, sia anche un fattore di disuguaglianza tra cittadini che non appare conforme a fondamentali precetti costituzionali”. Si sottolinea, pertanto, che “una automatica e generalizzata riduzione della somma determinata secondo il c.d. criterio nummario o aritmetico o criterio base per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti condanne e precedenti detenzioni, rende la valutazione equitativa priva di una adeguata e logica motivazione”.
4. Il Collegio ritiene questo ultimo indirizzo più persuasivo oltre che più aderente ad una lettura costituzionale della intera struttura dei diritti del singolo, nonchè ad una ragionata adesione ai principi della carta Europea dei diritti.
Ravvisa, pertanto, il denunciato vizio nella motivazione della Corte territoriale che, sul presupposto giuridicamente e naturalisticamente indimostrato della minore afflittività della detenzione in ragione delle pregresse condanne e delle conseguenti esperienze carcerarie sofferte dal ricorrente, opera una consistente quanto inspiegata diminuzione dell’importo giornaliero assunto a parametro dell’indennizzo. Si deve in proposito sottolineare che l’ingiusta detenzione incide sulla libertà personale, diritto di rango costituzionale egualmente inviolabile per qualsiasi individuo. La limitazione di tale bene primario è idonea a compromettere le manifestazioni e le facoltà costituenti espressione della persona in sè considerata e integra essa stessa il pregiudizio, intrinseco nel fatto lesivo e non valutabile in termini di utilità economica, che l’istituto della riparazione mira (solo) a indennizzare. In essa, inoltre, è sempre insita una quota di incidenza nell’ambito sociale e familiare. Ne discende che alla riparazione deve essere assegnato, anzitutto, un valore compensativo della perdita della libertà, prescindendo dalle ulteriori possibili conseguenze (ad esempio sul piano economico) derivanti dalla stessa privazione, le quali integrano aspetti negativi riflessi della lesione, specifici e eventualmente diversificati per ciascuno. La distinzione può essere immediatamente colta laddove si consideri che, inteso nel suo aspetto fondamentale e ineludibile, il pregiudizio connesso alla privazione ingiusta della libertà non necessita di prova: il vulnus, infatti, è nella stessa ingiusta limitazione del bene fondamentale.
Necessitano di prova da parte del richiedente, invece, gli ulteriori effetti pregiudizievoli della stessa privazione (in tal senso Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10690 del 25/02/2010 Rv. 246424).
Di conseguenza, con riferimento all’indicato aspetto essenziale della compromissione, legato alla natura strettamente personale del bene primario che ne è oggetto, il ristoro non può che essere considerato, almeno nel suo nucleo essenziale, in modo omogeneo per tutti gli individui, in conformità al principio costituzionale di uguaglianza. Da ciò la necessità di far ricorso a un criterio rispondente a un’uniformità pecuniaria di base, come avviene in altri settori del diritto attinenti ai diritti fondamentali (si pensi ai criteri di liquidazione del danno alla salute, inteso come diminuzione dell’integrità fisica, effettuato mediante il ricorso a tabelle che uniformano la quantificazione ai soli parametri dell’entità della lesione e dell’età), proprio perchè la limitazione della libertà personale incide direttamente sulle prerogative della persona in sè considerata, su un valore umano nella sua concreta dimensione, a prescindere da ogni conseguenza di carattere economico o, comunque, riflessa.
A tal fine può soccorrere il criterio aritmetico di calcolo dell’indennizzo elaborato dalla giurisprudenza.
5. Quanto esplicitato non implica che ai fini della determinazione dell’indennizzo non possano essere tenuti in considerazione, mediante incremento del parametro aritmetico di base, fattori diversi, ove ne sia dimostrata l’esistenza, quali i pregiudizi incidenti sull’attività lavorativa, sulla vita di relazione, sulle attività economiche o sull’immagine, peraltro nella misura in cui tale considerazione non si risolva in un non codificato risarcimento del danno. In tal senso si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte, affermando che l’art. 314 c.p.p., con il richiamo alla custodia cautelare subita, intende anzitutto garantire l’indennizzo per il danno derivante dalla mera privazione della libertà personale e delle dirette conseguenze di questa privazione sul piano delle attività e dei rapporti personali”, con la conseguenza che “il parametro giornaliero va dunque ad esse commisurato” e che “le ulteriori conseguenze vanno invece separatamente considerate e indennizzate nel limite del tetto massimo previsto” (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10690 del 25/02/2010, Rv. 246424).
Il diverso coefficiente di quantificazione dell’indennizzo correlato alla differenza tra restrizione carceraria e restrizione domiciliare, poi, è ragionevolmente collegato alla certa minore afflittività strutturale della restrizione domiciliare quale è regolata dalle norme che la prevedono.
D’altra parte va rilevato che il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto in ogni caso alla cognizione della Corte di legittimità, la quale può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non certo sindacare la sufficienza della somma liquidata a titolo di riparazione.
L’illogicità del criterio di liquidazione utilizzato dal giudice del merito, pertanto, si coglie laddove, come nel caso in esame, in relazione a un prolungato periodo di ingiusta detenzione, sia disposto un abbattimento consistente del computo aritmetico dell’indennizzo in forza di una generica presunzione, che si assume fondata sull’id quod plerumque accidit, la quale individua quale termine di partenza per il ragionamento presuntiva l’esistenza di precedenti condanne e di pregresse esperienze carcerarie del richiedente. Ciò in considerazione di quanto si è detto riguardo alla natura del bene compromesso e alla sua stretta inerenza alle prerogative fondamentali individuo, rilievo che assume più evidente consistenza ove si consideri che costituisce fatto notorio, come si evince dai ripetuti interventi legislativi atti a contrastare il sovraffollamento nelle carceri e dalle sollecitazioni che al riguardo ci provengono dalla Corte Europea, la situazione in cui versano le strutture di detenzione, ove spesso si registrano condizioni non adeguatamente rispettose della dignità umana. Va rilevato, inoltre, che attribuire automaticamente un effetto di riduzione della entità dell’indennizzo alla condizione carceraria pregressa in situazioni, quale quella in considerazione, di restrizione protrattasi per un consistente periodo di tempo, contrasta con la logica anche per la valenza non univoca della reiterata limitazione, poichè, come è stato osservato, “l’esistenza di precedente esperienza carceraria può avere sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza”, dato che il cumulo del periodo di detenzione ingiusta con quello di restrizione giustificata già patita potrebbe essere indicativo, in ragione del protrarsi della sofferenza, di una intensificazione della stessa e tale da ingenerare effetti ulteriormente pregiudizievoli, connessi al più prolungato allontanamento dal consesso sociale e alle maggiori difficoltà di reinserimento e di recupero delle normali attività.
Alla luce delle considerazioni svolte la giustificazione della riduzione dell’indennizzo sulla scorta della presunta assuefazione al regime restrittivo appare, quindi, al contempo, contrastante con i principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà sociale e non conforme ai canoni della logica.
6. Passando al profilo di censura concernente la mancata applicazione degli interessi sull’importo liquidato, si evidenzia l’infondatezza dello stesso alla luce del principio giurisprudenziale in forza del quale “in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, gli interessi al tasso legale sulla somma attribuita all’istante – non già moratori, bensì corrispettivi – vanno riconosciuti, se richiesti, dal passaggio in giudicato del provvedimento attributivo, atteso che solo da tale momento il credito – avente natura non risarcitoria – può ritenersi certo, liquido ed esigibile” (Cass. Sez. 3, n. 45706 del 26/10/2011 Rv. 251595).
6. Deve rilevarsi, infine, la fondatezza del secondo motivo di ricorso. Dal calcolo relativo ai periodi di carcerazione a diverso titolo indicati nel provvedimento, infatti, è possibile evincere una durata della detenzione sofferta di qualche giorno maggiore rispetto a quella per la quale l’indennizzo è stato liquidato. Deve essere emendato, pertanto, l’errore relativo al computo dei giorni di carcerazione in relazione ai quali va determinato l’indennizzo.
7. I profili di illegittimità della motivazione evidenziati giustificano l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo esame al giudice di merito, che provvederà, altresì, alla correzione dell’errore materiale sopra evidenziato.

P.Q.M.

la Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo, per nuovo esame.