In sede di giudizo abbreviato, il giudice non può limitarsi a ritenere spontanee le dichiarazioni dell’indagato solo perchè così qualificate dalla polizia giudiziaria che le ha ricevute, ma deve d’ufficio accertare, sulla base di tutti gli elementi, anche di natura logica, a sua disposizione se nel caso concreto era effettivamente ravvisabile tale spontaneità, dando atto di questa valutazione con motivazione congrua ed adeguata. Detto accertamento va compiuto d’ufficio dal giudice perchè la mancanza di spontaneità comporterebbe una inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni anche nel giudizio abbreviato.
(Cass. Sezione III Penale, 7 giugno – 21 settembre 2012, n. 36596)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio Felice – Presidente –
Dott. TERESI Alfredo – Consigliere –
Dott. FRANCO Amedeo – est. Consigliere –
Dott. MARINI Luigi – Consigliere –
Dott. GAZZARA Santi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
OMISSIS;
avverso la sentenza emessa l’11 ottobre 2011 dalla corte d’appello di Roma;
udita nella pubblica udienza del 7 giugno 2012 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. POLICASTRO Aldo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Roma escluse la contestata continuazione rideterminò la pena in anni 2 e mesi 8 di reclusione ed Euro 18.000 00 di multa e confermò nel resto la sentenza emessa, a seguito di giudizio abbreviato, il 10.2.2011 dal giudice del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato OMISSIS colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per avere in concorso con OMISSIS (giudicata separatamente), ceduto a OMISSIS gr. 0,054 di eroina, pari a 2 dosi medie, detenuto altri gr. 0,019 di eroina, nonchè detenuto ulteriori gr. 0,437 di eroina, pari a 305 dosi medie, occultati sulla persona della OMISSIS.
La corte d’appello ritenne che la prova del concorso dell’imputato nella detenzione anche della sostanza stupefacente rinvenuta addosso alla OMISSIS si ricavasse dalle spontanee dichiarazioni rese da questa alla polizia dopo il suo arresto, dichiarazioni utilizzabili trattandosi di giudizio abbreviato.
L’imputato propone personalmente ricorso per cassazione deducendo vizio di motivazione ed inosservanza di norma processuali stabilite a pena di nullità. Osserva che la prova della sua responsabilità per il quantitativo di droga rinvenuto addosso alla OMISSIS si fonda esclusivamente sulle cd. dichiarazioni spontanee rese da questa successivamente all’arresto, dichiarazioni che sono decisamente inutilizzabili. Invero, tali dichiarazioni, rese da soggetto in stato di arresto senza la presenza del difensore, con funzioni evidentemente difensive ed etero accusatone, sono palesemente inutilizzabili. L’art. 63 cod. proc. pen., comma 2, prevede espressamente che le dichiarazioni rese da chi fin dall’inizio doveva essere sentito in qualità di indagato sono assolutamente inutilizzabili anche nei confronti dei terzi. L’inutilizzabilità opera anche nel giudizio abbreviato, trattandosi di dichiarazioni non utilizzabili ab origine, perchè rese da soggetto arrestato, in assenza delle necessarie garanzie.
Osserva quindi che, una volta esclusa la sua responsabilità per lo stupefacente detenuto dalla Z., relativamente alla minima quantità da lui detenuta avrebbe dovuto essere applicata l’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.
Eccepisce inoltre in via subordinata che, anche nel caso di conferma della sua responsabilità per lo stupefacente detenuto dalla OMISSIS, è evidente che i due imputati devono rispondere dello stesso titolo di reato. Invece, per lo stesso fatto storico e per lo stesso quantitativo di sostanza stupefacente, per la OMISSIS è stata riconosciuta l’attenuante del fatto lieve. Eventuali diversificazioni della pena tra i due correi nello stesso reato possono derivare dalla diversità delle condizioni personali o dal diverso rito prescelto, ma non dalla diversa qualificazione della stessa circostanza oggettiva.
Il ricorso è fondato.
La corte d’appello ha ritenuto l’imputato responsabile non solo della cessione di un modesto quantitativo di sostanza stupefacente a tale M.A. (gr. 0,054 di eroina pari a 2 dosi medie per un corrispettivo di Euro 35,00) e per avere detenuto altri gr. 0,019 di eroina, ma anche di concorso nella detenzione di ulteriori gr. 0,437 di eroina, pari a 305 dosi medie, che si trovavano occultati sulla persona della OMISSIS. Il concorso nella detenzione di questa ulteriore sostanza stupefacente (che la difesa assume non essere equivalente ed omogenea all’altra, nè per grado di purezza nè per modalità di confezionamento) è stato ritenuto provato dalla corte d’appello facendo ricorso da un lato alla vicinanza dei due ed all’atteggiamento guardingo della OMISSIS durante la cessione e, dall’altro lato e soprattutto, alle spontanee dichiarazioni rese dalla OMISSIS dopo il suo arresto alla polizia giudiziaria – senza le garanzie di cui agli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. e senza la presenza del difensore -, con le quali aveva riferito che era stata indotta dall’imputato ad occultare la sostanza stupefacente sulla propria persona. La corte d’appello ha fatto riferimento ad entrambi questi elementi, ma dal complesso della motivazione si desume che l’elemento decisivo è stato rinvenuto nelle dichiarazioni della OMISSIS alla polizia giudiziaria.
La corte d’appello ha poi escluso che potesse configurarsi l’ipotesi lieve di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, proprio perchè l’imputato è stato ritenuto responsabile anche del concorso nella detenzione dello stupefacente che si trovava occultato addosso alla OMISSIS.
Il ricorrente eccepisce che queste dichiarazioni della OMISSIS alla polizia giudiziaria non erano affatto qualificabili come spontanee, e pertanto dovevano ritenersi inutilizzabili perchè rese senza l’osservanza delle prescritte avvertenza e procedure.
Osserva in particolare il ricorrente che dagli atti emerge che i due furono tratti in arresto da personale del Commissariato di P.S. Primavalle alle ore 11.40 del 9.2.2011; che poco dopo nella sede del commissariato fu perquisita la Z. e si rinvenne addosso alla stessa lo stupefacente; che alle ore 12.15 nella sede del commissariato la OMISSIS rese le spontanee dichiarazioni con le quali attribuiva all’ OMISSIS la titolarità della sostanza rinvenuta su di lei.
Esattamente quindi il ricorrente rileva che si tratta di dichiarazioni rese da soggetto in stato di arresto, nella sede del commissariato dove era stato portato dopo essere stato arrestato, e che pertanto doveva necessariamente essere assistito dal difensore, non potendo esservi dubbi che, a seguito dell’intervenuto arresto in flagranza ed a seguito del rinvenimento dello stupefacente, emergevano seri indizi di reità a suo carico. Tali dichiarazioni, secondo l’eccezione della difesa, rese senza la presenza del difensore, avevano con evidenza una finalità difensiva ed eteroaccusatoria e sono palesemente inutilizzabili, a nulla valendo la dicitura contenuta nel verbale secondo cui l’interessata era stata preliminarmente resa edotta della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, facoltà alla quale aveva espressamente rinunciato, e ciò perchè si tratta di facoltà non rinunciabile.
L’eccezione del ricorrente è fondata. La corte d’appello ha ritenuto che le dichiarazioni della OMISSIS fossero utilizzabili perchè nella specie si era proceduto con il giudizio abbreviato e perchè l’art. 350 cod. proc. pen., comma 7, preclude l’utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee alla sola sede dibattimentale.
Va preliminarmente ricordato che la norma generale di cui all’art. 63 cod. proc. pen. – che pone appunto un principio generale alla stregua del quale devono essere interpretate anche le altre norme speciali del codice – stabilisce (comma 2) che se la persona doveva essere sentita fin dall’inizio in qualità di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate. Il comma 1 prescrive poi che, se davanti alla polizia giudiziaria la persona non sottoposta alla indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore, mentre le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese.
Posto questo inderogabile principio generale, nel dare attuazione al principio stesso l’art. 350 cod. proc. pen. (intitolato appunto Sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini), ribadisce (comma 1) che gli ufficiali di polizia giudiziaria assumono, con le modalità previste dall’art. 64, sommarie informazioni utili per le investigazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini che non si trovi in stato di arresto o di fermo; che prima di assumere le sommarie informazioni, la polizia giudiziaria invita la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini a nominare un difensore di fiducia e, in difetto, provvede a norma dell’art. 97, comma 3 (comma 2); che le sommarie informazioni sono assunte con la necessaria assistenza del difensore, al quale la polizia giudiziaria da tempestivo avviso (comma 3); che in assenza del difensore la polizia giudiziaria richiede al PM di provvedere a norma dell’art. 97, comma 4 (comma 4). Il medesimo articolo dispone anche che sul luogo o nell’immediatezza del fatto, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono, anche senza la presenza del difensore, assumere dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, anche se arrestata in flagranza o fermata, notizie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini (comma 5); che di tali notizie e indicazioni assunte senza l’assistenza del difensore sul luogo o nell’immediatezza del fatto è però vietata ogni documentazione e utilizzazione (comma 6);
che la polizia giudiziaria può altresì ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, ma di esse non è consentita la utilizzazione nel dibattimento, salvo quanto previsto dall’art. 503, comma 3 (comma 7).
Nella specie non possono esservi dubbi che nel momento in cui rese le dichiarazioni la Z. aveva già assunto la qualità di persona sottoposta alle indagini, dal momento che era stata arrestata in flagranza per il reato in questione, era stata portata al commissariato, era stata sottoposta al perquisizione personale ed era stata rinvenuta sostanza stupefacente celata sulla sua persona.
Ciò posto, non è condivisibile l’assunto secondo cui la inutilizzabilità sancita dall’art. 63 cod. proc. pen. non opererebbe nel caso di giudizio abbreviato. Dal tenore letterale e dalla ratio del dell’art. 63 cod. proc. pen., comma 2, come dal suo necessario coordinamento con gli artt. 62 e 350 cod. proc. pen., si desume che il divieto all’utilizzazione dibattimentale, diretta o indiretta, delle dichiarazioni rese senza assistenza difensiva dall’indiziato alla polizia giudiziaria ha carattere assoluto e generale. La norma, infatti, non opera distinzioni fra dichiarazioni sollecitate e dichiarazioni spontanee, nè limita l’inutilizzabilità alle dichiarazioni di imputato o indagato interessato o a quelle di imputato o indagato in reato connesso, e neppure alle sole dichiarazioni di chi abbia già la veste formale di imputato o di indagato e dichiarazioni di chi, pur trovandosi sostanzialmente in tale condizione, non ne abbia ancora assunto la qualità formale (Sez. 6^, 17.12.2004, n. 12174/05, PG in proc. Napoli, m. 231719;Sez. 2^, 19.12.2005, n. 1863/06, Portogallo, m. 233362).
Per quanto concerne invece il giudizio abbreviato, va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il negozio processuale di tipo abdicativo in cui consiste il rito abbreviato può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Ne consegue che nel giudizio abbreviato, mentre non rilevano nè l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte “secundum legem”, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p. (in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo), nè le ipotesi di inutilizzabilità “relativa” stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta “patologica”, inerente, cioè, agli atti probatori assunti “contra legem”, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare (Sez. Un., 21.6.2000, n. 16, Tammaro, m. 216246; Sez. 5^, 23.9.2004, n. 43542, Morrillo, m.230065).
Va quindi riaffermato il principio che l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi sin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentito come indagato è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, pur se è stato disposto il giudizio abbreviato (Sez. 2^, 29.4.2009, n. 34512, Fornaro, m. 245226; Sez. 5^, 21.10.1999, n. 12975, Busellato, m. 214723). E’ stato invero condivisibilmente osservato che “quella sancita dall’art. 63 c.p.p. è una inutilizzabilità patologica, stabilita dalla legge come concreto baluardo del principio di civiltà secondo il quale nemo tenetur se detegere, nonchè – per il profilo riguardante l’utilizzazione contro i terzi – a garanzia dell’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie formulate da chi tema di dover affrontare personalmente un giudizio”; che tale inutilizzabilità è “rilevabile anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, ivi compresa la fase di rinvio”, salva la preclusione da giudicato parziale; e che “la natura e il grado dei diritti che la norma tutela sono tali da non poter essere oggetto della negoziazione abdicativa nella quale si concreta la scelta del rito abbreviato, che possiede efficacia sanante solo rispetto alle inutilizzabilità fisiologiche e a quelle relative (perchè stabilite, ad esempio, per la sola fase del dibattimento), ma non comporta affatto la generale sanatoria delle violazioni di norme di processuali ad efficacia generale, nè l’eliminazione delle illegalità intrinseche della prova per la violazione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti” (Sez. 2^, 29.4.2009, n. 34512, Fornaro, cit.).
D’altra parte, sul punto, può richiamarsi quanto già evidenziato dalla sentenza Sez. 3^, 19.5.2005, n. 35629, Nikolli, secondo cui “le disposizioni di cui all’art. 63 cod. proc. pen. debbono essere interpretate in modo conforme al principio di stretta legalità che il legislatore ha posto in materia di acquisizione degli elementi probatori in campo penale al fine di garantire non solo il diritto di difesa dell’indagato ma anche l’altro principio fondamentale della genuinità nella formazione delle prove … (nella) ipotesi in cui il soggetto doveva essere sentito sin dall’inizio come persona sottoposta alle indagini… la garanzia è posta a tutela non solo del diritto di difesa del dichiarante ma anche della genuinità della acquisizione della prova, ossia anche della esigenza di evitare per quanto possibile dichiarazioni accusatorie, compiacenti o negoziate, a carico di terzi. Come ha ben messo in evidenza la sent. della Sez. 6^, 20 maggio 1998, Villani, m. 211.130, “la norma dell’art. 63 c.p.p., comma 2 è intesa ad evitare non solo la violazione del diritto di difesa del dichiarante, ma anche patologici mercanteggiamenti delle autorità inquirenti realizzabili attraverso “l’obliterazione” dei reati da cui ci si è mossi e di cui il soggetto dichiarante è possibile autore. Di qui la conseguenza, più volte riconosciuta da questa Corte ed avallata nel 1996 dalle Sezioni Unite, di una drastica sanzione: quella dell’inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni che siano state raccolte, senza che al dichiarante sia stata data contezza della sua posizione processuale e senza che questa sua posizione venga formalizzata in atti” … “da questi stessi intendimenti del legislatore, l’interprete deve anche ricavare orientamenti precisi circa la questione di quando ricorra la situazione presupposta dalla norma in esame” … “inappagante e solo parziale è una soluzione totalmente impostata in termini formalistici… (essendo) ben più aderente alla protezione degli interessi che vanno tutelati una considerazione sostanzialistica del caso, nel senso di non fermarsi solo al dato di quanto storicamente si è fatto nell’ambito dell’indagine, ma di considerare anche quanto si sarebbe dovuto fare rispetto alla situazione, quale appariva al momento in cui le dichiarazioni sono state rese”.
Pertanto, in tutti i casi in cui l’autorità procedente già era (o avrebbe potuto essere con una condotta diligente) o sia venuta a conoscenza degli indizi di reità esistenti a carico del dichiarante e proceda o continui nell’esame senza dare contezza al dichiarante della sua posizione, senza formalizzarla e senza assistenza difensiva, la sanzione è sempre quella della inutilizzabilità assoluta ed erga omnes delle dichiarazioni stesse. Si tratta infatti di un deterrente introdotto dal legislatore contro ipotesi patologiche, in cui deliberatamente o colpevolmente si ignorano i già esistenti indizi di reità nei riguardi dell’escusso, con pericolo di dichiarazioni accusatorie, compiacenti o negoziate, a carico di terzi, realizzabili anche attraverso “l’obliterazione” dei reati di cui il dichiarante è l’autore (v., in questo senso, Sez. Un., 9 ottobre 1996, n. 1282, Campanelli, m. 206846, e le altre massime citate dalla sentenza n. 35629/2005).
Nel caso in esame è poi inutile richiamare la giurisprudenza sul principio che la verifica della sussistenza della qualità di persona indagata va condotta non secondo un criterio formale ma secondo il criterio sostanziale della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto in base alla situazione esistente nei momento delle dichiarazioni (Sez. 6^, 22.4.2009, n. 23776, Pagano, m. 244360; Sez. Un., 23.4.2009, n. 23868, Fruci, m. 243417; Sez. Un, 25.2.2010, n. 15208, Mills, m. 246584) in quanto la Z. in quel momento, per le ragioni indicate, era indiscutibilmente già indagata per il medesimo reato.
La sentenza impugnata, peraltro, si basa principalmente sull’assunto che questi principi non sarebbero applicabili nella specie perchè si tratterebbe non di normali dichiarazioni rese senza assistenza difensiva dall’indiziato alla polizia giudiziaria, bensì di dichiarazioni “spontanee” rese alla polizia giudiziaria dall’indiziato ai sensi dell’art. 350 cod. proc. pen., comma 7, delle quali non è consentita l’utilizzazione solo nel dibattimento, mentre sarebbero utilizzabili nel caso di giudizio abbreviato. Ed in effetti, secondo la giurisprudenza prevalente, tale disposizione sancisce la inutilizzabilità delle dichiarazioni spontanee solo nel dibattimento, sicchè ne è invece consentita la utilizzabilità nel giudizio abbreviato, nel quale appunto non si fa luogo al dibattimento (cfr. Sez. 2^, 29.11.2011, n. 44874, Tutrone, m. 251360;
Sez. 5^, 19.1.2010, n. 18064, Avietti, m. 246865; Sez. 3^, 3.11.2009, n. 48508, Di Ronza, m. 245622; Sez. 3^, 13.11.2008, n. 46040, Bamba, m. 241776; Sez. 5^, 23.2.2005, n. 12445, Di Stadio, m. 231689; nonchè Sez. Un., 21.6.2000, n. 16, Tammaro, cit., punto 2).
Va però anche tenuto presente che la norma posta dall’art. 350, comma 7, costituisce norma che fa eccezione alle norme più generali poste dai commi precedenti – ed in particolare a quelle secondo cui le notizie assunte nella immediatezza e nel luogo del fatto da persona nei cui confronti vengono svolte indagini senza la presenza del difensore possono essere utilizzate solo ai fini della immediata prosecuzione delle indagini mentre ne è vietata ogni documentazione e ogni altra utilizzazione (commi 5 e 6) – oltre che al principio generale posto dagli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. (ed al principio generale del nemo tenetur se detegere invocato da Sez. 2^, 29.4.2009, n. 34512, Fornaro, cit.). In quanto norma eccezionale, pertanto, essa non è suscettibile di applicazione analogica e deve essere comunque soggetta ad una interpretazione restrittiva. Il che del resto appare conforme con l’affermazione (contenuta nella citata sentenza delle Sez. Un., 21.6.2000, n. 16, Tammaro, punto 2) sulla sussistenza di un “obbligo d’interpretazione restrittiva di norme processuali, la cui surrettizia disapplicazione potrebbe altrimenti svuotare di contenuti, nell’ambito dei riti alternativi di matrice negoziale, il fondamentale principio di legalità della prova: quest’ultima intesa come risultato conoscitivo che il giudice, dopo avere selezionato i dati acquisiti secondo le regole del procedimento probatorio, pone, con determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, a fondamento della decisione”.
Se così è, e se si considera la collocazione della detta norma che consente la (limitata) utilizzazione fuori dal dibattimento delle dichiarazioni rese dall’indagato senza le prescritte formalità e garanzie e lo stretto collegamento con le disposizioni contenute nei commi precedenti del medesimo articolo, la necessità di una interpretazione restrittiva può innanzitutto portare a ritenere che la norma derogatoria possa trovare applicazione soltanto per le dichiarazioni rese dall’indagato sul luogo e nell’immediatezza del fatto (cfr. in questo senso, a quanto sembra, Sez. 4^, 25.2.2011, n. 15018, Amata, m. 250228; Sez. 3^, 13.11.2008, n. 46040, Bamba, m.241776; Sez. 4^, 9.4.2003, n. 25922, Più, m. 225851, che si riferiscono tutte alle sole dichiarazioni spontanee rese dall’indagato nella immediatezza del fatto, nonchè Sez. 4^, 19.11.1996, n. 10364, Menconi, m. 207147, secondo cui “Nel giudizio abbreviato, che va celebrato con il materiale probatorio acquisito allo stato degli atti, sono utilizzabili dal giudice tutti gli atti confluiti nel fascicolo del pubblico ministero, ivi comprese le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla Polizia Giudiziaria in assenza del difensore, purchè ricevute sul luogo o nell’immediatezza del fatto”). Ed in effetti, se non sussiste questa necessità di pronte indagini essendo le dichiarazioni rese in altro luogo ed in un momento temporalmente differito, non vi sarebbe più motivo razionale per derogare al principio generale di cui agli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. Nella specie, appunto, le dichiarazioni della Z. non sono state raccolte dalla polizia giudiziaria sul luogo e nell’immediatezza del fatto.
In secondo luogo, va ricordato che, secondo un condividibile orientamento giurisprudenziale, anche nel giudizio abbreviato le dichiarazioni spontanee rese da un indagato nell’immediatezza dei fatti, ai sensi dell’art. 350 cod. proc. pen., non possono costituire prova a carico di altro coindagato (Sez. 4^, 9.4.2003, n. 25922, Più, m. 225851), e ciò perchè il negozio processuale di tipo abdicativo che sta alla base del giudizio abbreviato “può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio”. Il Collegio è a conoscenza che questo orientamento è stato recentemente sottoposto a critiche (Sez. 2^, 29.11.2011, n. 44874, Tutrone, m. 251360), le quali però non sono decisive in quanto si basano sulla considerazione che l’inutilizzabilità delle dichiarazioni spontanee sarebbe soltanto fisiologica e quindi non rilevabile nel giudizio abbreviato perchè, con questa scelta processuale, l’imputato rinunzia al dibattimento e quindi all’esame in contraddittorio della persona che ha rilasciato le dichiarazioni spontanee a suo carico. La decisione dianzi richiamata, invece, si fondava sulla diversa e condivisibile argomentazione che le dichiarazioni accusatone, ancorchè spontanee, rese senza le prescritte garanzie da un indagato nei confronti di altro soggetto non sono idonee a tutelare il principio fondamentale di genuinità delle prove, che deve essere garantita in ogni giudizio e d’ufficio dallo stesso giudice e non può essere rinunciata da una delle parti.
Inoltre, anche prescindendo dalle suddette considerazioni, dalla ricordata necessità di interpretazione restrittiva dell’art. 350 cod. proc. pen., comma 7, deriva che questa norma eccezionale può applicarsi soltanto quando si tratti effettivamente, nel caso concreto, di dichiarazioni “spontanee”, ossia rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini spontaneamente e non già a seguito di sollecitazioni o domande della polizia giudiziaria (in questo senso, invece, Sez. 4, 25.2.2011, n. 15018, Amata, m. 250228;
Sez. 3^, 13.11.2008, n. 46040, Bomba, m. 241776). In altre parole, sembra che l’elemento decisivo per l’applicabilità della norma speciale (o eccezionale) risieda esclusivamente nella spontaneità delle dichiarazioni, che dunque non si risolvano sostanzialmente in risposte a domande della polizia, mentre non sembrano assumere rilievo decisivo, per affermare la spontaneità, elementi meramente formali quali la contestazione specifica del fatto costituente oggetto della imputazione e la presenza di domande e risposte raccolte in verbale sottoscritto dall’interessato (così, invece, le citate sentt. n. 15018/11 e n. 46040/08, che richiamano sul punto Sez. 1^, 20.5.1998, n. 2958, Alfano, la quale peraltro si riferiva all’obbligo, imposto dall’art. 141 bis cod. proc. pen., di documentazione integrale di ogni interrogatorio di persona che si trovi in stato di detenzione, salvo che esso abbia luogo in udienza).
Sembra invero che i diritti fondamentali tutelati dagli artt. 63, 64 e 350 cod. proc. pen. (e l’esigenza di genuinità della prova) potrebbero essere allo stesso modo (se non più) compromessi qualora l’indagato risponda a domande o inviti degli investigatori senza che gli sia stato formalmente contestato un fatto reato determinato.
Qualora poi, nel caso concreto, le dichiarazioni auto o etero accusatorie dell’indagato, assunte in assenza del difensore e degli avvisi di legge, non possano considerarsi realmente spontanee e non sia quindi applicabile la norma dell’art. 350 cod. proc. pen., comma 7, la loro eventuale inutilizzabilità va rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio. Spetta infatti proprio al giudice il compito primario di garantire la genuinità e la legalità delle prove poste a fondamento della sua decisione. Ne consegue che il giudice non può limitarsi a ritenere spontanee le dichiarazioni dell’indagato solo perchè così qualificate dalla polizia giudiziaria che le ha ricevute, ma deve d’ufficio accertare, sulla base di tutti gli elementi, anche di natura logica, a sua disposizione se nel caso concreto era effettivamente ravvisabile tale spontaneità, dando atto di questa valutazione con motivazione congrua ed adeguata. Ne consegue anche che detto accertamento va compiuto d’ufficio dal giudice perchè la mancanza di spontaneità e l’inapplicabilità della norma speciale comporterebbero una inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni anche nel giudizio abbreviato.
Nella specie la corte d’appello ha totalmente omesso di compiere tale accertamento sebbene vi fossero oggettivamente seri dubbi sulla spontaneità delle dichiarazioni della OMISSIS, se si considera che essa era stata arrestata in flagranza, che era stata portata al commissariato, che era stata ivi sottoposta a perquisizione personale, che le era stato trovata indosso la sostanza stupefacente, che era probabile che cercasse di difendersi rilasciando dichiarazioni etero accusatone. Come si è dianzi rilevato, poi, dalla sentenza impugnata non risulta che la responsabilità dell’imputato anche per la detenzione dello stupefacente rinvenuto sulla OMISSIS (circostanza che ha indubbiamente influenzato in modo decisivo il giudizio sulla non configurabilità della ipotesi lieve) si potesse desumere anche da prove diverse dalle dichiarazioni della OMISSIS. La inutilizzabilità delle stesse non potrebbe quindi in questa sede essere ritenuta non decisiva.
E’ fondato anche il secondo motivo. Ed invero, ancorchè si ritenga provato il concorso dell’imputato nella detenzione della sostanza stupefacente rinvenuta addosso alla OMISSIS, è manifestamente illogica la motivazione con cui è stata esclusa una irrazionale ed ingiustificata disparità di valutazione nell’escludere per l’ OMISSIS l’ipotesi attenuata del fatto lieve quando questa ipotesi era stata riconosciuta con la sentenza di patteggiamento alla OMISSIS, che concorreva nel medesimo reato per il medesimo fatto materiale e per il medesimo quantitativo di sostanza stupefacente. La corte d’appello ha invero ritenuto apoditticamente che la sua decisione non poteva essere influenzata dalla sentenza di patteggiamento, anche perchè questa non era definitiva. Si tratta di motivazione inconsistente, nella parte in cui richiama la non definitività dell’altra sentenza, e comunque irrilevante perchè se è vero che la diversa qualificazione del medesimo fatto non vincola il giudice di questo processo, è anche vero che essa comunque richiede quanto meno che nei confronti dell’odierno ricorrente l’attenuante sia esclusa con una motivazione particolarmente approfondita e puntuale e non con una generica e sintetica motivazione come quella contenuta nella sentenza impugnata.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Roma per nuovo giudizio.

PQM

annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Roma.